Il 3 aprile è passato. Fino a pochi giorni fa era una specie di colonna d’Ercole, varcata la quale il mondo avrebbe subito una rivoluzione. Che fosse anche tornare indietro, tornare a prima, riconquistare modi e tempi dell’era pre-coronavirus. Il 3 aprile era prima lontanissimo, poi nell’allenamento generale è stato come trattenere il fiato, resistere sott’acqua ancora un po', mentre sopra l’acqua, lì fuori, cioè nel mondo, imperversava una terribile tempesta
E’ stata una data riempita di proiezioni e di speranza. Si è potuto credere che di colpo accadesse qualcosa di definitivo, la svolta della strada, e tutto ricominciasse. Magicamente? E’ possibile che lo abbiamo creduto, almeno all’inizio. Eravamo un po' nell’immaginario di stare giocando una partita capitale, la battaglia decisiva, insomma quegli eventi che hanno un’inizio tonante, un climax che necessita di concentrazione, sforzo e resistenza, e poi la fine.
Ora il 3 aprile è passato. Era una bella giornata di sole, una giornata di primavera. Come quelle che sono seguite, come oggi. Solo che è cambiato il copione. Un po' come in una serie televisiva, in cui il colpo di scena non è mai definitivo perché ci sono molte stagioni ancora e molte puntate da popolare, ora noi siamo nell’era di mezzo tra l’esplosione dell’emergenza e una conclusione che probabilmente non sarà accompagnata da un boato, ma da lenti, altalenanti aggiustamenti.
Siamo in un copione scompaginato. In parte assuefatti (perché la capacità di adattamento degli organismi è sorprendente), un po’ storditi, un po’ distratti.
Mentre i muscoli si raffreddano, pezzi di realtà si insinuano nella scena. La preoccupazione per la ripresa economica, ad esempio. Le difficoltà serissime di chi ha perso il lavoro o che lo sta mantenendo con una drastica contrazione dello status precedente, gli abissi delle persone più fragili, non soltanto gli anziani sempre più soli, ma anche chi soffre di disagi psichici severi o di condizioni esistenziali marginali. La misura della distanza dagli altri, che ora ci restituisce immagini di diffidenza e paura. E poi, certamente, il desiderio di ricominciare, la spinta alla ricostruzione, che dovrà necessariamente trovare uno slogan diverso dall’ “andrà tutto bene”, e prevedere un contenitore dove ci sia spazio anche per i frantumi, perché non si potrà, né si dovrà, smarrire la memoria di quello che sta succedendo, da tutti i punti di visti di cui si compone la convivenza umana: nella prospettiva che non ci sarà un nuovo momento zero, ma che probabilmente i mesi a venire avranno un andamento ondivago, in cui il rischio di ammalarsi - ad esempio - non sarà del tutto sconfitto, ma ridimensionato, inserito in una cornice di maggiore capacità reattiva, paradossalmente più prossimo alla nostra vita quotidiana, infiltrato (e reso meno minaccioso?) nei comportamenti che definiranno le nostre azioni.
Sarebbe appropriato, in questo caso, richiamare un termine fin troppo abusato negli ultimi anni: la resilienza. Termine abusato perché, nella sua versione semplicistica, pesca nuovamente in un immaginario eroico, in cui la ricetta segreta sembra essere il pensiero positivo e una forma parossistica ma ingenua di coraggio. Insomma la metafora logora che dentro ogni crisi si cela un’opportunità. Questo mantra personalmente mi disturba perché ammanta di romanticismo la crisi, come se fosse la stretta anticamera per lo spazio vasto e eccitante dell’espansione. E invece la crisi è cupa e dolorosa. Allora preferirei usare quella lettura della resilienza che significa il saper resistere all’urto con duttilità, sapersi ristrutturare intorno alla ferita. Ora le ferita è l'epidemia, ma anche il passaggio piuttosto depressivo che ci fa entrare nell’ordine di idee per cui la famigerata “fase 2” potrebbe non avere i cieli luminosi della quiete dopo la tempesta. Dovremo piuttosto ristrutturarci intorno all’evidenza che ci vorrà molto tempo per riassorbire i lividi dell’impatto con l’epidemia e che la convalescenza e l’abituazione a nuovi assetti (di lavoro, economici, di convivenza) saranno mescolati tra loro.
Stiamo entrando, o siamo entrati - chissà - nel periodo della manutenzione. Che prevede un assetto probabilmente meno eroico, un centrocampo che sappia lavorare duro, con lucidità e capacità di visione. E ci sarà bisogno di responsabilità e buon senso, di capacità di riflessione e di cooperazione, oltre che di norme e direttive.