Stephanie Tatin poggia le mani sul tavolo della cucina e sospira lentamente. Deve raccogliere le idee in fretta, ma la giornata di lavoro è stata lunga. E’ molto stanca. I ritmi in cucina sono sempre serrati, non ha mai un attimo per fermarsi a pensare. Non che ciò le sia mai pesato più di tanto. Il suo corpo e le sue mani procedono in automatico, un istinto animale li guida con ferocia e maestosità. Stephanie si muove davanti al forno a legna come un ghepardo, ogni attesa cela la frenesia dello scatto improvviso, ma preciso, verso la meta.
Nella sala d’ingresso dell’Hotel du Pin d’Or, sua sorella Caroline sta intrattenendo i clienti. Sono venuti da tutti i paesi vicini del Centro-Valle della Loira per assaggiare la torta di mele di Stephanie, la cui fama ha ormai da tempo superato i confini ristretti del piccolo paesino di Lamotte-Beuvron.
Stephanie ha bisogno di riflettere. Nel forno a legna la grande tortiera di ferro è rovente. Il burro e lo zucchero con cui l’ha cosparsa si saranno ormai sciolti per permettere che la pasta briseè non carbonizzi in cottura, la base perfetta per sostenere le mele, che con il calore perderanno liquidi e acidità per combinarsi alla pasta in un’unione perfetta. Il problema è che Stephanie ha commesso un errore tanto banale, quanto madornale: ha dimenticato di mettere sul fondo la briseè. Le mele sono a diretto contatto con lo zucchero ed il burro dentro al ferro infernale, a breve si bruceranno e Stephanie non ha tempo di rifare tutto da capo. I clienti dell’Hotel sono proprio dietro la porta della cucina, ispezionano con il naso gli afrori del laboratorio, Stephanie non può imprecare. Prende la pasta briseè dimenticata, apre il forno a legna e la adagia sopra le mele, poi chiude il forno e spera. Dopo qualche minuto la cucina è inondata dall’aroma caldo del burro e da una nota pungente che sorprende Stephanie. E’ una strana sensazione, un odore che somiglia a quello di bruciato, ma che allo stesso tempo è suadente.
Stephanie sforna la torta, la lascia raffreddare qualche minuto e poi la capovolge. Lo stupore nei suoi occhi è totale. Le mele non sono carbonizzate, ma hanno un colore ambrato, come quello della composta di albicocche che prepara alla fine di ogni estate per conservarne il ricordo nei mesi più freddi. La torta è bellissima, nonostante sia letteralmente sotto-sopra. Lo zucchero ed il burro, per un miracolo alchemico, si sono trasformati in caramello, penetrando nelle mele e mescolandosi ai loro umori. Stephanie esce dalla cucina e prima che sua sorella possa fulminarla con lo sguardo, si rivolge agli avventori: “oggi niente torta di mele, oggi torta Tatin soltanto per voi!”. La torta è squisita, i clienti non credono al proprio palato. Da ora in poi nessuno vorrà più tornare indietro. La torta Tatin ha fatto il suo ingresso in società e non ne uscirà più.
Nell’ambito della filosofia della scienza è stato coniato un termine per definire quel processo di scoperta di qualcosa di inatteso, mentre si sta cercando altro, la serendipità. Alcuni farmaci e vaccini, così come molte altre scoperte scientifiche, sono nati in questo modo. Il caso più eclatante è quello di Alexander Fleming che, al ritorno da una vacanza, si accorse di aver dimenticato un piatto di coltura batterica all’interno del quale si era sviluppato un fungo. Analizzando il rapporto fra le muffe e i batteri scoprì la penicillina, rivoluzionando per sempre la medicina.
L’aspetto più interessante è che già Charles Darwin, nel suo celebre L’origine delle specie, fondò la sua teoria evoluzionistica sul concetto di errore. Ogni evoluzione nasce da quello che poi i genetisti avrebbero identificato come errore di trascrizione del codice. Il genoma, infatti, è un testo immenso, la cui trascrizione di generazione in generazione, porta con sé sempre una piccola quota di imperfezione. Questa imperfezione genera lo sviluppo di qualcosa di imprevisto e che in origine non ha alcuna funzione programmatica. Il prolungamento di un osso, lo sviluppo di un tessuto, la crescita di un dente. La maggior parte di questi errori di trascrizione non serve a nulla, ma in qualche caso si rivela funzionale per la sopravvivenza. L’elemento che determina l’efficacia o meno dell’errore è il contesto. L’imperfezione in un contesto ecologico specifico può rappresentare un vantaggio. La teoria della selezione naturale (da notare che Darwin non amava il termine “selezione”, ma lo utilizzò per farsi capire dai suoi colleghi) si fonda interamente sull’idea che dall’imperfezione possa nascere un’evoluzione e che sopravvivono quelle specie che, per effetto del caso, sono adatte al contesto. Da notare bene, le specie non sono le più adatte. Darwin ripudiava quel superlativo che porta con sé l’idea che nella natura vi sia una sorta di finalità ultima, di progresso continuo verso la perfezione. La Natura non ha direzione, né strade maestre. L’imperfezione è totalmente imprevedibile, così come lo sono gli effetti generati dal rapporto fra l’errore biologico e l’adattamento al contesto.
Adesso proviamo a spostarci su un piano psicologico. L’errore o la dimenticanza, in psicologia, non sono atti concreti, ma vissuti. Nella società della performance in cui viviamo, l’errore è rappresentato culturalmente come qualcosa da negare o nascondere. Basti pensare alle attese che avevamo durante la pandemia nei confronti della medicina. Di fronte ad un virus di cui si sapeva poco, alla medicina era richiesto un controllo rassicurante, che si svolgeva nelle forme di comunicazione adottate. Dall’iniziale minimizzazione, alla proposta di ipotesi presentate come certezze, ai modelli previsionali costruiti in fretta e furia. La scienza non avrebbe potuto manifestare il principio d’ignoranza che è all’origine di ogni scoperta e dunque anche di ogni soluzione ai problemi. In quest’ottica, l’errore era percepito come incompetenza e non come parte del processo scientifico.
Un simile modello di significati è condiviso culturalmente anche quando si tratta delle vite dei singoli e delle relazioni sociali. Una scelta vissuta come sbagliata, un errore, sono concepiti come fallimenti, generando spesso vissuti depressivi e senso d’impotenza. Di contro, la fantasia onnipotente che possano esistere discipline come la medicina, ma anche percorsi di vita, infallibili, rende le relazioni sociali problematiche perché prive di limiti che permettano di riorientarsi e adattarsi al contesto.
Renzo Carli nel 2017 introdusse il costrutto di ripiego quale “accettazione del proprio posto nel sistema sociale non convinta e quale limite frustrante alle proprie fantasie onnipotenti” (Carli, 2017. Il ripiego: una fantasia incombente). Carli approfondisce il mondo dell’arte, contrapponendo l’opera che nasce dall’incontro fra le competenze dell’artista e le domande della committenza, inteso quale incontro virtuoso e produttivo, e l’arte contemporanea, che spesso si fonda sulla fantasia onnipotente dell’artista, rappresentato culturalmente come “talento” che tramite il suo lavoro esprime solo sé stesso e le sue idee, senza una condivisione con il sistema sociale entro cui la sua opera dovrebbe essere fruita.
Il concetto di ripiego, tuttavia, è utile anche a esplorare i vissuti di molte persone che entrano nel mondo del lavoro. Quelli che nascono come “lavoretti” in alcuni casi diventano lavori competenti che contribuiscono allo sviluppo della propria identità professionale e sociale. Due degli esempi più diffusi sono il lavoro di cameriere o quello del call center, spesso intrapresi agli inizi della carriera per “capire come funziona il mondo del lavoro” e poi portati avanti per anni un po’ perché funzionano, un po’ perché “trovare un altro lavoro è sempre più difficile”. In molti casi, questi percorsi “non convinti”, come avrebbe detto Carli, sono accompagnati dal vissuto depressivo di fallimento, di aver commesso un errore irreparabile quando si era agli inizi e “ogni strada era possibile”. Tale vissuto depressivo è appunto sostenuto dalla fantasia onnipotente - diffusissima nella contemporaneità - che ciascuno di noi possa diventare ciò che vuole, basta desiderarlo. Così il proprio lavoro, vissuto come ripiego, viene sminuito e soprattutto decontestualizzato dal proprio percorso e dal rapporto con il contesto di lavoro entro cui negli anni sviluppiamo competenze.
Trovo allora il concetto di serendipità interessante anche al di fuori della filosofia della scienza. L’idea che nel momento stesso in cui la vita si svolge, pur cercando altro, si possa scoprire qualcosa di inatteso. A livello psicologico ciò significa dare un nuovo senso al vissuto di aver commesso un errore. E’ soltanto nei contesti che viviamo ogni giorno, e non nelle nostre fantasie onnipotenti, che l’errore può essere inteso come opportunità di sviluppo. Forse Darwin può ancora illuminare la nostra cultura, anche quando parliamo di emozioni.