La mia prima educazione sessuale e oggi

La mia prima educazione sessuale e oggi

Risale agli anni ‘90 il primo ricordo di una lezione di educazione sessuale. Con altri dodicenni ne ero destinataria. Frequentavo le scuole medie a Roma e davanti a noi si stagliava un omone con un camice bianco aperto ed una riproduzione dettagliata di un pene e di una vagina. Ci spiegava come si mettesse un preservativo e – immagino, perché non ricordo – elementi base del sesso penetrativo e riproduttivo. Non ricordo nessun coinvolgimento emotivo. Ero davanti a degli organi, nient’altro, poteva essere una milza o il pancreas, sarebbe stato uguale. Negli stessi anni venni raggiunta da diverse iniziative di promozione della salute. Oltre alla lezione di cui sopra, un altro medico fece terrorismo psicologico sul tabagismo, portando immagini di polmoni di fumatori e di non fumatori e cercando di spaventare circa i rischi sanitari connessi a tale pratica. Non molto tempo dopo fu chiaro che le informazioni circa i rischi non fossero sufficienti all’adozione di stili di vita sani. A concludere, forse l’incontro che, più degli altri, percepii come disturbante: durante l’orario scolastico ci venne consegnato un opuscolo. In ogni pagina descritto dettagliatamente un motivo per non abortire, attraversando spericolatamente le diverse condizioni in cui questa evenienza potesse venire alla mente, compresa la violenza sessuale ed il rischio di morte per la partoriente. Chi ci consegnava questo materiale era l’insegnante di religione di un’altra classe che – volontariamente – si occupava per la scuola di sessualità.

Prevenzione dei comportamenti a rischio

Ho fatto esperienza, come migliaia di altri della mia generazione, di due proposte culturali: da una parte una fortemente medicalizzata, incentrata sulla prevenzione del rischio sanitario (gravidanze indesiderate, malattie sessualmente trasmissibili, anatomia degli organi riproduttivi), dall’altra quella cattolica fondata sull’impensabilità del piacere e l’associazione – a costo della stessa vita – della sessualità alla riproduzione.

Negli anni ’90 l’incremento delle iniziative nell’ambito della promozione della salute, con particolare focus sulla prevenzione delle tossicodipendenze, finirono per inglobare e uniformare per contenuti e metodo anche quelle sulla sessualità, trasformando queste ultime in azioni volte alla prevenzione dall’AIDS e dalle malattie sessualmente trasmissibili.

Oggi non parliamo più di educazione sessuale ma di educazione sessuoaffettiva, o educazione sentimentale, o ancora educazione socioaffettiva. Tutti questi nomi segnalano progressivamente un abbandono della cultura della diffidenza che proponeva come pericolosa la sessualità per la salute e per la convivenza sociale. Tale diffidenza credo abbia prodotto effetti paradosso: di rinuncia intimorita e inconsapevole o promiscuità altrettanto intimorita e inconsapevole.

Oggi in Italia, diversamente che nella maggioranza dei paesi membri dell’Unione Europea, laddove presente, l’educazione sessuoaffettiva è impopolare e talvolta divisiva. Ne emerge uno scenario estremamente frammentato, geograficamente e culturalmente disomogeneo e affidato all’iniziativa dei singoli plessi scolastici. In uno di questi, una collega ed io abbiamo avuto modo di incontrare una classe di terza media. Ma se tale esperienza non si limita più al ridurre la frequenza dei “comportamenti rischiosi” su un piano principalmente sanitario, quali possibilità offre l’incontro intorno al mandato dell'educazione sessuoaffettiva?

e un’altra educazione possibile

La complessificazione dello sguardo e degli obiettivi di tali iniziative è recepita da tutti i documenti ufficiali prodotti dall’OMS e dalla Comunità Europea. In Italia, da alcuni mesi, sono state prodotte delle linee guida a firma Ordine degli Psicologi del Lazio, Ordine Provinciale dei Medici-Chirurghi e Odontoiatri, Sapienza e Torvergata.

Nell’ambito di tale cornice, le ipotesi che ci hanno guidato tendevano a riconsiderare la sessualità e l’affettività nel contesto più ampio della relazione sociale. La sessualità, l’intimità, l’amore ne sono una componente.

Pensiamo ai femminicidi. Un numero esorbitante di donne uccise in quanto donne da partner ed ex partner. Sono convinta che la quasi totalità delle persone condannino un tale crimine. Ma il femminicidio è solo al vertice di una piramide composta da molti elementi culturali che impattano in modi imprevedibili sulla soggettività di ognuno di noi. Ciò che rende possibile il femminicidio è presente nella quotidianità dei nostri rapporti e non è percepito come violento.

Mi torna in mente Sabrina, sedicenne con cui lavoro nel mio studio di psicoterapia. Ha un fidanzato della sua età, con lui ha dei rapporti sessuali e non hanno mai usato il preservativo. Sabrina sa che si espone al rischio di una gravidanza indesiderata e sa quali sono gli anticoncezionali in commercio che può utilizzare, con o senza consenso genitoriale. E allora qual è il senso di questa scelta? Sabrina mi risponde che “lui non lo ha mai proposto e lei si vergognava a fare vedere che aveva dei condom con sé”.

In questa affermazione precipita una cultura millenaria – patriarcale e sessista - che prescrive ai generi una specifica postura affettiva e sociale. Lei deve essere sprovveduta, inesperta e passiva. Lui spericolato, esperto e direttivo.

Ora torniamo in classe e alla domanda: quali possibilità offre l’incontro intorno al mandato della educazione sessuoaffettiva?

Serve un lavoro che consenta di percepire lo spettro invisibile, interiorizzato e naturalizzato del “dominio simbolico” – per dirla con Bourdieu – di culture fondate sul potere e che risolvono la complessità della relazione con l’altro-diverso-da-sé attraverso l’imposizione o l’ignoramento. Si può, per esempio, iniziare a parlare di cosa li porta a confliggere ed in che modo, in classe, a casa, in amore o con se stessi. La scuola è uno degli strumenti dei quali le società si sono dotate per educare al rapporto con la complessità, quindi con le differenze. Le differenze di genere sono tra le prime e più resistenti tradizioni culturali che impariamo a riprodurre. La violenza nei confronti della componente pretesa vulnerabile nella società – le famose minoranze, che non sono minoranze statistiche ma gruppi sociali marginalizzati (donne, bambini, persone con disabilità, comunità LGBTQIA+, il non-occidente culturale) – è un metodo antidemocratico che possiamo trovare nelle classi dentro il racconto di una lezione, nel modo in cui sono disposti i banchi o nel modo in cui si sono distribuiti i posti più desiderati e meno desiderati, lo troviamo nel racconto del rapporto con i professori e il modo di vivere le valutazioni dell’apprendimento, lo troviamo nelle ricreazioni, nei giochi da maschi e da femmine, lo troviamo nelle sigarette fumate di nascosto per fare colpo sul tipo che ti piace, lo troviamo nei gruppi e nei sottogruppi dei tipi tosti e delle tipe toste. Noi lo abbiamo trovato in tutto questo e nella descrizione che ci hanno fornito della propria idealizzata “anima gemella” (bella, silenziosa e comprensiva se donna, bello prestante e facoltoso se uomo). C’è molto lavoro da fare, prima di tutto dentro noi stessi, perché il personale è politico, e viceversa.

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