Senso esagerato di importanza personale; continua ed eccessiva richiesta di ammirazione; attesa di particolari riconoscimenti di merito anche in assenza di specifici risultati che li giustificano; preoccupazione per il successo e fantasie di potere; ricerca di relazioni con persone considerate di alto rango; tendenza a manipolare le conversazioni e a considerare con senso di superiorità gli altri; tendenza ad approfittare degli altri per ottenere vantaggi personali; incapacità o riluttanza nel riconoscere i bisogni e i sentimenti degli altri. Queste sono, in termini narrativi, le caratteristiche associate al disturbo narcisistico di personalità, secondo le tassonomie cliniche più note.
Nel tempo, gli autori che hanno studiato da un punto di vista psicodinamico la personalità narcisista, soprattutto Heinz Kohut e Otto Kernberg, hanno cercato di comprendere le origini di questo assetto della personalità e il modo più adatto per trattarlo.
C’è da dire che il disturbo narcisista è, nelle sue versioni meno estreme, del tutto sintonico, non soltanto per l’individuo rispetto a se stesso, ma anche per l’individuo rispetto alla società. Chi soffre di un moderato disturbo narcisistico, ad esempio, risponde bene alle richieste performative del mondo del lavoro; ha un aspetto adeguato alle circostanze; ci tiene a mostrare il meglio di sé. E’, in fin dei conti, qualcuno che si sente comodo in vetrina. E’ interessante, in questo contesto, sottolineare la collusione tra la personalità narcisistica e alcune istanze estetiche della nostra società. Quello che difetta ad entrambe è la verticalità: in un orizzonte appiattito sul mostrarsi, sul sovrainvestimento di immagini costruite di sé, si radicalizza la difficoltà ad entrare in contatto con gli aspetti più intimi e profondi dell’esistenza. Il dramma del narcisismo si compie espressamente nella dimensione relazionale. E’ infatti nella relazione con l’altro che ci si confronta con la propria complessità, l’altro è lo specchio che svela l’artificiosità di alcune pose, la sovrastruttura della confezione. Freud, che si occupò del narcisismo in diverse fasi del suo lavoro, ritenne che la grandiosità narcisistica fosse funzionale al bambino molto piccolo per contrastare angosce profonde legate alla propria sostanziale impotenza: il bambino, che dipende totalmente da altri per la sua sopravvivenza, struttura inconsciamente la percezione di grandezza per non naufragare nella paura legata all’evidenza concreta che, separato dalla madre, di lui resterebbe ben poco.
Altri autori hanno sottolineato che nell’esperienza di legame primario dei narcisisti ci sono spesso genitori poco empatici, con eccessive aspettative nei confronti dei figli e una spiccata alternanza di sostegno e svalutazione, terreno della costruzione di un’immagine di sé epurata da un ancestrale sentimento di inadeguatezza.
Se, dunque, durante lo sviluppo successivo il narcisista non fa spazio all’accettazione della propria imperfezione, se non si consente di sperimentare il bisogno da un altro imperfetto e parzialmente indisponibile come tutti, l’immagine difensiva di grandiosità si incista, perseverando in una costruzione esteriore senza linfa vitale dentro, rispetto a cui il rapporto affettivo diventa la minaccia più pericolosa.
Nel mito greco (magistralmente descritto nelle Metamorfosi di Ovidio) Narciso è un bellissimo giovane che si perde nella propria immagine riflessa in uno stagno. E’ vittima di una curiosa profezia, svelata dal veggente Tiresia: sarebbe vissuto a lungo soltanto se non avesse conosciuto se stesso. Nel racconto, Narciso, dopo aver violentemente respinto la ninfa Eco, innamorata di lui, si china su uno specchio d’acqua e si vede. La straordinaria bellezza dell’immagine lo costringe a consumarsi nella visione, fino a morirne.
La conoscenza di sé che uccide Narciso non è quella dell’imperativo socratico: Conosci te stesso. E’ una conoscenza estetica bruciante, una conoscenza che rimane imprigionata nella forma, che collassa su se stessa e implode. Nella storia del mito, entrambi i personaggi svaniscono: Narciso perso nell’immagine riflessa, Eco consumata dal dolore del rifiuto, fino a diventare solo una voce incorporea che rilancia le voci altrui.
Quello che avviene nella relazione con un narcisista assomiglia ad una condanna paradossale all’inconsistenza. L’impossibilità di sopportare il senso di vulnerabilità che muove gli individui narcisisti ad organizzare una immagine di sé sbilanciata su una costruzione esteriore fittizia corrisponde, nell’altro in relazione, ad un costante indebolimento dei nessi di significato, ad una progressiva perdita di punti di riferimento, ad un annaspare ostinato, fino allo smarrimento della percezione di sé. Nel tentativo di far atterrare l’altro in un assetto di intimità si perde a propria volta la terra, destinandosi a diventare un’eco, una voce che solo reagisce alla voce dell’altro.
Il mito di Narciso finisce in un fiore, il narciso appunto, cresciuto accanto allo stagno del racconto. Che, etimologicamente, significa anche “sopore”, e di lì “narcotico”: la tossicità dell’inconsistenza.
Questo scenario, però, ha anche un altro possibile finale, che traccia la strada clinica dell’antidoto: si esce dall’incastro soporifero solo riconoscendo la fragilità, rinunciando all’onnipotenza e alla manipolazione, lavorando sul sentimento di vuoto e perdita, sulla rabbia e sull’angoscia. Consentendo che sia un altro, e non uno stagno, a innescare il percorso del rispecchiamento.