Stress

Stress

Il concetto di stress psico-fisico è uno dei grandi contenitori della Psicologia, una categoria-ombrello, sotto la cui definizione rientrano diverse condizioni psicosomatiche o psicologiche che sono utilizzate come indicatori di un malessere non meglio identificato.
Il termine è talmente diffuso e generico che nel tempo è diventato un motto di spirito, un’espressione pret-à-porter evocata quando non sappiamo bene a cosa attribuire il nostro disagio. Iconica è ormai l’immagine del medico di base che, in assenza di altre ipotesi, dice alla paziente nel suo studio: “signora, lei è stressata, cerchi di riposarsi un po’!”.

Nel contesto aziendale, l’attenzione allo stress dei lavoratori è da diverso tempo un obbligo per l’impresa e un diritto del lavoratore, codificato in una serie di valutazioni che tengono conto di diversi aspetti: l’ambiente di lavoro, il livello di autonomia nello svolgimento delle attività e il carico di lavoro. Come vedremo, il concetto di stress diventa pretesto per comprendere la cultura organizzativa, assumendo dunque un’accezione sociale e relazionale, più che individuale.

Diversi anni fa, lavoravo per una società di intervento psicologico che si occupava delle valutazioni dei livelli di stress lavoro correlato nelle medie e grandi aziende.
Una delle più grandi società di telecomunicazioni italiane ci contattò per una valutazione di secondo livello. La valutazione di primo livello è di tipo quantitativo: i lavoratori sono sottoposti a test psicologici di autovalutazione, che producono un punteggio, il quale viene poi sottoposto a ulteriori analisi statistiche che portano a determinare un valore numerico che indica se il livello di stress del gruppo dei lavoratori è sopra o sotto la soglia considerata non problematica.

Da questa prima analisi emersero due categorie professionali che presentavano alti livelli di stress. La prima era costituita dagli operatori del customer care, dunque da coloro che si occupano di fornire la prima assistenza telefonica ai clienti. La seconda era costituita dai tecnici, cioè da coloro che intervengono direttamente presso il domicilio del cliente o presso le centraline poste sul territorio, per rimediare a eventuali guasti, o per gestire attivazioni di linea e sospensioni.

Queste due categorie professionali furono sottoposte a una valutazione di secondo livello, condotta dal nostro gruppo, che consisteva in analisi di dati qualitativi: interviste con le figure di alto e medio livello, focus group con i lavoratori, affiancamento durante le attività lavorative quotidiane, per comprendere nel merito il tipo di servizio erogato.

Partimmo dunque per un lungo viaggio per la penisola, che ci portò a Roma, Milano, Padova, Torino, Bologna, Napoli e Palermo, città nelle quali erano presenti le sedi più importanti dell’azienda.

Il primo aspetto che ci apparve subito chiaro è che il concetto di stress aveva significati molto diversi, una volta approfondite le culture locali e gli aspetti organizzativi che riguardavano le due categorie professionali. 

Il caso dei tecnici 
In breve tempo scoprimmo che il lavoro dei tecnici era invidiato dalla gran parte delle altre figure professionali interne all’azienda. Era un lavoro dinamico, che permetteva loro di stare all’aria aperta, di spostarsi in luoghi diversi e dunque di evitare la monotonia dell’ufficio.
La gran parte dei tecnici con cui parlammo non riferiva sintomi psicosomatici di malessere, quanto un vissuto di recriminazione a partire da una condizione di controllo aziendale.

Da pochi mesi, l’azienda aveva deciso di introdurre un sistema di geolocalizzazione delle auto aziendali in dotazione ai tecnici. La motivazione era duplice: da una parte, poter intervenire prontamente in caso di guasto del veicolo; dall’altra, verificare gli spostamenti dei tecnici, che spesso utilizzavano l’automobile per motivi non ortodossi, come andare al ristorante in pausa pranzo.
I tecnici interpretarono questa introduzione tecnologica come un tentativo di essere controllati dall’azienda, controllo che andava a minare l’autonomia della categoria, ritenuta essenziale per il buon funzionamento dei servizi erogati ai clienti.
Un aspetto non marginale era che la categoria dei tecnici storicamente è sempre stata molto sindacalizzata. Gli alti punteggi di stress rilevati nella prima valutazione furono l'esito dell’intermediazione dei rappresentanti sindacali, che avevano un’importante voce in capitolo nel determinare il valore numerico finale associato allo stress.

Lo stress, in questo caso, divenne pretesto per sollevare un conflitto fra dipendenti e dirigenti aziendali. Divenne subito chiaro che per intervenire sullo stress era fondamentale costruire momenti di condivisione del senso del cambiamento introdotto, in modo che tecnici e dirigenti potessero uscire dal vissuto di controllo dell’uno sull’altro e attribuire un significato produttivo alla geo-localizzazione, utile per entrambe le parti in gioco.

Il caso degli operatori del customer
Ben diversa era la situazione degli operatori dei call center. La gran parte di loro lavorava in azienda da decenni, provenendo da un contesto principale, quello del reparto mobile, poi fuso con il reparto fisso con l’evoluzione del mercato.
Il senso di appartenenza di questa categoria aziendale era molto elevato, ma minato dallo spauracchio della esternalizzazione del servizio a operatori di altri Stati, come l’Albania.
Inoltre, le richieste di aumentare la produttività e l’introduzione di sistemi di verifica sempre più stringenti, portarono a condizioni di stress psicologico e di anomia molto diffuse.

Gli elementi di maggiore preoccupazione erano i seguenti:

  • la richiesta di risolvere il problema portato dal cliente in un massimo di 3 minuti; la necessità di trovare un indicatore numerico per verificare la produttività si scontrava con il desiderio degli operatori di offrire un servizio di qualità, prima che un servizio veloce;

  • la presenza di tabelle all’interno degli uffici, che riportavano in tempo reale la produttività dei singoli operatori, attivando dinamiche competitive, basate su premi e punizioni, che riducevano il senso di appartenenza e di collaborazione all’interno del gruppo;

  • la presenza dei supervisor, figure di coordinamento che avevano il compito di motivare gli altri operatori, ma che spesso finivano per essere percepiti come “cani da guardia” da parte di questi ultimi, aumentando il vissuto di essere sotto esame costante;

  • la minaccia di chiudere le sedi territoriali e il passaggio allo smart working da casa; per questo tipo di lavoratori, l’abbandono degli uffici non era percepito come un valore aggiunto, quanto la perdita del rapporto con i colleghi e dell’appartenenza al luogo fisico.

A partire da queste premesse, il nostro gruppo di lavoro identificò tre diverse culture organizzative condivise da dirigenti e dipendenti, all’interno delle singole sedi:

  1. La cultura lassista. Questo tipo di cultura era caratterizzata da alti livelli di appartenenza al gruppo e bassi livelli di produttività. I dipendenti si sentivano appartenere a una famiglia e i loro dirigenti non assumevano atteggiamenti di controllo, ma nemmeno di verifica della qualità del servizio offerto. Tutto era lasciato all’esperienza e all’improvvisazione e i dipendenti non avevano interesse a prendere in considerazione criteri di produttività diversi da quelli che avevano sempre condiviso, cioè offrire un’assistenza senza verifica. Il cliente doveva essere accolto e accompagnato, ma la risoluzione del problema non era prioritaria, spesso demandata ad altri reparti.

  2. La cultura produttiva. Questo tipo di cultura era caratterizzata da alti livelli di produttività e una buona appartenenza al gruppo. I dirigenti erano consapevoli che “la produttività può essere aumentata dai sistemi di verifica fino a un certo punto; oltre quella soglia, la produttività aumenta solo se il dipendente sente di poter avere potere decisionale ed è felice di svolgere il proprio lavoro”.
    In questo tipo di cultura, ai dipendenti erano offerti spazi per il riposo e la creatività, il gioco e il consolidamento del rapporto con i colleghi. Tuttavia, vigeva spesso una propensione individualista, che rendeva l’appartenenza meno solida rispetto ad altre sedi.

  1. La cultura controllante. Questo tipo di cultura era caratterizzata da alti livelli di produttività e scarsissima appartenenza al gruppo. I dirigenti e i supervisor adottavano sistemi di controllo pressanti sull’operato del singolo, che sentiva di dover dare il massimo e aderire alle richieste in modo accondiscendente, pena la perdita del lavoro e della sicurezza. Gli alti livelli di produttività erano dunque fondati sulla paura e il ricorso all’aiuto dei colleghi era minimo. Ognuno era occupato a coltivare il proprio orticello, all’interno di dinamiche competitive spesso estenuanti, che motivavano gli alti livelli di stress percepito.

L’aspetto più problematico che emerse dalla valutazione di secondo livello è che tanto la cultura produttiva, quanto quella controllante, portavano a risultati desiderati dalla dirigenza aziendale.

Lo stress, nel caso degli operatori del customer, divenne dunque pretesto per approfondire non tanto un conflitto di ruolo, quanto il tipo di cultura organizzativa che era espressa dalle diverse sedi territoriali, oltre che il significato attribuito alla richiesta di “aumentare la produttività”, entro una condivisione del senso del servizio offerto fra dirigenza e lavoratori.
Dunque, come visto nell’esempio, quella dello stress è una categoria ampia, che se limitata a descrizione di una condizione individuale di vulnerabilità, perde molto del suo potenziale.
Lo stress ha sempre a che fare con il contesto e con la relazione che questo ha con gli individui.
Se essa, invece, viene utilizzata come pretesto per evidenziare un “malessere organizzativo”, approfondendone il senso relazionale che racconta di un conflitto fra gruppi o di una risposta a culture organizzative problematiche, l’analisi dei fattori di stress permette di accedere non solo ai significati, ma anche alle possibilità di sviluppo dell’organizzazione.
Uno sviluppo che non passa per la riduzione di un deficit personale, quanto dalla possibilità di pensare e dare senso alle richieste organizzative, al bisogno di appartenenza al gruppo e ai motivi che orientano l’attività lavorativa di ciascun membro.

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