Febbraio 2018, teatro Ariston di Sanremo. Un gruppo di ragazzi ancora sconosciuti al grande pubblico sale sul palco più celebre della musica italiana e comincia a suonare un brano che sin dal primo ascolto risulta orecchiabile anche dai critici più tradizionalisti. A metà della performance entra, con grande sorpresa di tutti, la vecchia che balla citata dal brano, una ballerina di 84 anni che si esibisce in una danza virtuosa, spericolata, sospesa in aria a volteggiare, tripudio delle possibilità umane di spingersi oltre i limiti del tempo.
Quel gruppo di ragazzi è Lo Stato Sociale ed il brano è tutto un programma, già dal titolo. Una vita in vacanza non lascia spazio a fraintendimenti. Una critica al produttivismo capitalista, un elenco di lavori sottopagati, precari, che rappresentano fedelmente la generazione Millennial, combattuta fra la necessità di trovare un posto nel sistema ed il sogno di realizzare le proprie passioni segrete.
In quel brano c’è tutto il mondo del lavoro odierno ed i suoi assiomi: “vivere per lavorare o lavorare per vivere?”, è il dubbio che assilla generazioni di impiegati; “niente nuovo che avanza”, la stilettata alle promesse politiche del progetto renziano che ha precarizzato ulteriormente il mondo del lavoro; “nessuno che dice se sbagli sei fuori”, la stoccata finale all’imprenditoria rampante incarnata da Flavio Briatore, che propina in televisione la retorica del boss straricco che si è fatto da solo e che decide le sorti di ambiziosi talenti con l’aggressività e la competitività di una puntata di Masterchef.
La fantasia di passare una vita in vacanza era in quel caso una provocazione politica. In realtà, se pensiamo al modo, sempre più diffuso, in cui viviamo la vacanza e soprattutto la sua interruzione, spesso percepita come improvvisa e traumatica, la prospettiva somiglia più ad una gabbia dorata.
Gli inglesi lo chiamano post-vacation blues, qui da noi è più conosciuta come sindrome depressiva da rientro. Identifica quel complesso di sintomi, tra cui umore depresso, irritabilità, stress, ansia, che molte persone sperimentano per un periodo limitato non appena terminato il periodo di ferie, soprattutto quelle estive.
La rete è piena di consigli e ricette pronte all’uso per limitare i danni psico-fisici da rientro. Da quelli più scontati (fai sport, take your time, mangia in modo sano, conserva i ricordi del viaggio) a quelli più controintuitivi (“prolunga la vacanza al rientro, non ricominciare le tue attività immediatamente”, come se riavviare la propria routine lavorativa non dipendesse in buona parte da fattori esterni, indipendenti dal nostro desiderio).
Alcune analisi si soffermano maggiormente su aspetti “strutturali”. Anche se qualsiasi pausa dal lavoro ci sembra sempre insufficiente, alcuni specialisti ritengono che il modo di concepire la vacanza in Italia, amplifichi gli effetti negativi quando è ora di tornare a lavoro. In altri paesi europei, i periodi di vacanza sono più corti, ma anche più diffusi nel corso dell’anno. Da noi ci sono solo due macro periodi di sospensione: uno piuttosto lungo, quello estivo, ed uno più circoscritto, quello natalizio. L’interruzione delle attività lavorative per 3 settimane renderebbe allora più complicato rientrare nel mood quotidiano, amplificando i sintomi negativi del ritorno.
Il punto su cui occorre fare più attenzione è anzitutto non patologizzare un fenomeno emozionale piuttosto comune. Provare nostalgia per qualcosa che è terminato, essere irritati o tristi perché ci aspetta il ritorno al lavoro, sono emozioni che fanno parte della nostra esperienza.
Semmai più interessante è esplorare quali significati attribuiamo alla vacanza, con quali aspettative siamo partiti e con quali vissuti ci riappropriamo del nostro lavoro.
La stessa nozione di vacanza ci dà indizi su come culturalmente concepiamo il tempo del non lavoro. E’ un’assenza, un vuoto da riempire con esperienze che desideriamo uniche e indimenticabili, oppure come sospensione che ci ricarichi psicologicamente, come fosse un preludio in funzione del ritorno alla produttività.
Questa concezione appartiene ad un mondo trascorso, nel quale tempo libero e tempo lavorativo avevano confini ben definiti. Oggi è molto più difficile tracciare una linea di demarcazione fra i due tempi e - soprattutto dopo la pandemia, che ha richiesto una ridefinizione radicale di entrambi gli spazi dell’esperienza quotidiana - siamo sempre più coinvolti da un cambiamento categoriale imponente.
Se passare una vita in vacanza ci sembra una fantasia che non ha limiti realistici, anche la negazione del nostro desiderio di avere spazi improduttivi durante il periodo di lavoro è deleteria. Se la vacanza resta un tempo di separazione fantasticato per un intero anno, la sua conclusione sarà sempre angosciante. Non potremo mai fare tutto quello che sognavamo di fare, non ci sentiremo mai completamente rigenerati e pronti per un nuovo lunghissimo anno di fatiche e stress.
Se invece il tempo di lavoro venisse ripensato anche in relazione al nostro desiderio di improduttività (sia materialmente, prendendosi momenti di pausa, sia soprattutto emozionalmente, attribuendo cioè al tempo di lavoro una ricchezza di significati più ampia rispetto al semplice “tocca faticare”), la vacanza diverrebbe una delle diverse esperienze vissute nel corso dell’anno, con meno oneri salvifici a darle sostanza.
Una vacanza che non avrebbe altra funzione se non quella di dare un senso più variegato alla nostra esperienza.