Sono appena sveglio, ancora sdraiato sul letto, in attesa che i sensi comincino ad abituarsi all’ambiente circostante come ogni mattina. Guardo fuori dalla finestra e vedo la mia pianta di peperoncino che a fatica tento di coltivare su un balcone che affaccia su un quartiere popolare. I frutti sono maturi, rossi come il corallo. Un fascio di luce colpisce il cuscino. Nonostante siano ancora le sette del mattino, la luce mi brucia il volto, è terribilmente calda.
Oltre il balcone posso sentire le prime battute del quartiere: qualche risata spezzata, i rintocchi dei bancali di frutta scaricati dai camion che riforniscono i negozi di ortofrutta indiani della zona. Fra i rumori del traffico qualcuno si lamenta del caldo, ce n’è troppo quest’anno, pare che dovremo farci l’abitudine in quelli a venire.
Dal caldo infernale francese ai crolli sulla Marmolada, negli ultimi giorni il tema del cambiamento climatico ha ripreso ad essere argomento di dibattito pubblico, polarizzato fra gli avvertimenti dei climatologi e lo scetticismo dei negazionisti.
Un aspetto su cui, tuttavia, ci si interroga poco è se esistono effetti a breve e lungo termine della trasformazione ambientale che incidono sui vissuti psicologici di individui, gruppi e comunità.
Quasi vent’anni fa, il filosofo australiano Glenn Albrecht coniò il termine solastalgia, derivato dall’unione dei lemmi latini solacium (“conforto”) e algia (“dolore”). Indica il vissuto emotivo di malessere che ci pervade quando l’ambiente che ci circonda è stato violato, distrutto o abbandonato. Con agghiacciante capacità di sintesi, lo stesso autore lo definisce come “la nostalgia di casa che si prova quando si è ancora a casa”.
Quando pensiamo al concetto di ecologia, la nostra prima impressione è che si stia parlando di un atavico conflitto fra ciò che è naturale e ciò che è artificiale, costruito dall’uomo e dannoso per la Natura stessa. Un tema antichissimo, che già Virgilio trattò ampiamente nelle Georgiche e nell’Eneide.
In realtà, il cambiamento ecologico ha un’accezione più ampia e può riguardare le trasformazioni degli stessi artefatti umani in nuove conformazioni. Basti pensare al fenomeno della gentrification, cioè alla trasformazione negli ultimi decenni di zone urbane popolari “riqualificate”. Un fenomeno che ha rappresentato una vera e propria deportazione determinata da fattori economici di ampie fette di popolazione - la classe che un tempo si definiva proletaria -, costrette ad abbandonare i propri quartieri di origine e a trasferirsi in zone ancor più periferiche della città, a causa dell’espansione della classe media, desiderosa di trasferirsi in zone tradizionali, un tempo povere ed ora rinnovate da nuovi investimenti (edilizi, culturali, sociali).
Mi è capitato in diverse occasioni di parlare con i vecchi abitanti di quartieri popolari riqualificati, gli ultimi superstiti di un vecchio sistema comunitario che osservavano in vivo la radicale trasformazione degli spazi in cui erano nati, cresciuti ed invecchiati. Nonostante la riqualificazione, dunque un miglioramento ambientale quantomeno nelle intenzioni, il loro sguardo era “solastalgico”: la fine del loro mondo coincideva con l’espansione di un degrado sociale che colpiva i propri vicini, amici e parenti, obbligati a trasferirsi in zone sempre più lontane dal centro storico. La gentrificazione era percepita come un’invasione da parte dei più ricchi, che gradualmente distruggevano non solo l’ambiente e l’architettura, ma lo stesso senso di comunità e di identità del quartiere.
Questo vissuto di degenerazione degli antichi costumi, potrebbe sembrare oggi il lamento di chi non si riconosce più nel cambiamento. Qualcosa che ha a che fare con l’invecchiamento, il passaggio generazionale, la resistenza al progresso tecnico, sociale e culturale.
Anthony Giddens, sociologo britannico, qualche decennio fa sosteneva che la generazione nata nel nuovo millennio sarebbe stata la prima a vivere il cambiamento come regola. A differenza delle generazioni precedenti, per le quali il cambiamento (di valori, di costumi, di mentalità) rappresentava una rottura con il proprio senso identitario, per le nuove generazioni il cambiamento avrebbe rappresentato un fattore permanente, definendo una nuova forma mentis, predisposta sin dall’inizio a vivere contesti flessibili ed in rapida trasformazione. Vecchie e nuove generazione sarebbero dunque separate dalla stessa distanza tecnologica che intercorre fra nativi digitali e immigrati digitali. I nativi sono immersi nel cambiamento, ne conoscono l’imprevedibilità sin da quando sono bambini.
Tale lettura progressista del cambiamento cognitivo e culturale potrebbe indurre a pensare che in futuro il vissuto nostalgico per un mondo perduto e deteriorato tenderà a scemare, sostituito da stili di pensiero e modalità di adattamento sempre più sofisticate, volte a integrare le trasformazioni ambientali in un continuum percettivo, più che a considerarle come eventi dirompenti.
Resta però il dubbio se tale capacità di assimilazione risulterà sufficiente e adeguata in relazione al climate change.
Il cambiamento con cui cominciamo seriamente a confrontarci solo da qualche anno, infatti, si sviluppa su una scala più ampia e globale. Non si tratterà più solo di temi generazionali o di classe, non riguarderà solo quartieri e zone urbane. Complessi ecosistemi degenereranno, città intere dovranno adattarsi a nuove condizioni estremamente difficili da gestire.
Si dovrà dunque cominciare a parlare in modo più assertivo di ecosistema, comprendendo in esso anche i fattori psicologici che i gruppi sperimenteranno in prima persona. La nostalgia di casa quando si è ancora a casa potrebbe diventare una manifestazione che segnala un vissuto traumatico, nei confronti del quale dovremo sviluppare strumenti d’intervento psicologico e sociale sempre più efficaci. Strumenti che sin da ora abbiamo bisogno di costruire e che potranno agevolare il compito di adattamento delle generazioni future.
Un ultimo appunto. Nella scorsa newsletter vi abbiamo promesso che saremmo ripartiti da dove ci siamo interrotti, raccontando la contemporaneità attraverso la psicologia. Stavolta proviamo a dirvi anche come pensiamo di farlo. Come avrete notato, è già la seconda newsletter che ricevete in poco più di una settimana. La promessa che proveremo a rispettare è di passare da un appuntamento mensile ad uno settimanale, aumentando non solo il numero di occasioni, ma anche i punti d’osservazione attraverso cui analizzare e raccontare stralci di contemporaneità con le lenti che ci appartengono, quelle psicologiche.