Psicoterapia buona e giusta

Psicoterapia buona e giusta

Mentre nelle classi delle scuole italiane diminuiscono significativamente gli studenti che “fanno religione”, gli studi di psicoterapia si riempiono e gli psicoterapeuti aumentano.

Pare che la salvezza promessa dalla fede sia stata sostituita dalla salute mentale, promessa - anch’essa - dalle psicoterapie. Gli psicoterapeuti sono nuovi sacerdoti, invitati a parlare nei programmi televisivi, a commentare i fatti di cronaca al tg, a scrivere -eccoci – sulla contemporaneità. Sentiamo dire che tutti dovrebbero andare in psicoterapia e che per stare bene nel mondo, si debba essere persone risolte. Le dissonanze stonano e tutto deve essere armonia.

“Tutti dovremmo andare dallo psicologo. La salute mentale è un diritto.”

Inizia così il colloquio con Ines. Ha venticinque anni, studia architettura e questo è quello che mi risponde quando le domando come mai avesse pensato di rivolgersi a me. Leila invece ha sedici anni. Ha chiesto ai genitori di incontrare una psicoterapeuta ma loro, confessano, non hanno idea del perché. Leila mi dirà che “parlare con qualcuno che ti ascolta fa sempre bene”. Poi c’è Alberta, ha quattordici anni ed è da me perché “l’ha detto il giudice” nel contesto di una separazione molto conflittuale tra i genitori. Sono persone diverse e utilizzano parole altrettanto diverse, ma c’è una cosa in comune: il senso dell’essere lì di fronte a me pare autoevidente, o perché buono e giusto, o perché obbligatorio (le due cose, per altro, vanno spesso insieme nel senso comune). Sempre più frequentemente mi pare di confrontarmi con l’apparente scontatezza dell’opportunità di rivolgersi ad uno studio di psicoterapia. Alcune volte sembra basti elencare avvenimenti presunti traumatici del passato per giustificare una domanda.

Io, invece, sono sempre incredibilmente incuriosita dal processo che porta una persona a venire da me per parlare di sé o di chissà cos’altro.

Di psicologia si parla ovunque e andare o essere andati in psicoterapia è quasi una precondizione alle nascenti relazioni sentimentali. Nei primi anni della mia formazione, noi giovani psicologi sapevamo di essere troppi, soprattutto a Roma, dove mi sono laureata e lavoro.

Ma troppi rispetto cosa? Troppi rispetto la domanda di psicoterapia. Fu per questo che molti di noi – me compresa – si attrezzarono per lavorare anche e prima in altri contesti: scuole, aziende, cooperative sociali, territori, associazionismo. Il desiderio di diventare psicoterapeuti è maturato con gli anni e non fu scontato. Oggi i giovani psicologi si laureano in un contesto culturale che vede la psicoterapia come prodotto di massa e coerente con le logiche di mercato (si pensi alla nascita delle piattaforme on line come Unobravo o Serenis). Cultura diversa, problemi diversi.

Negli ultimi venti anni la salute mentale si è affermata come diritto. Con ciò, sono aumentati a dismisura le attività per il benessere psicofisico. Tra queste, le più fortunate probabilmente sono la psicoterapia e lo yoga. L’esperienza pandemica ha funzionato come booster di un processo già avviato. È indubbio che sia migliorata l’accessibilità ai servizi psicologici, aumentandone la presenza sul territorio e la sostenibilità economica per chi chiede consulenza, d’altra parte pare si sia archiviata definitivamente la questione del perché ci si rivolga ad uno psicoterapeuta.

Se un tempo le appartenenze sociali (ricchi, poveri, destra o sinistra, progressisti o conservatori etc.) funzionavano da organizzatori delle proprie relazioni e della propria emozionalità, oggi dobbiamo affidarci alle diagnosi per sapere chi siamo. Migliaia di uomini narcisisti incontrano altrettante donne codipendenti, ansiosi, border, bipolari, iperattivi, neurodivergenti di qualche tipo. Badate bene, non sbeffeggio il paradigma diagnostico che è un paradigma e non ha colpe dell’uso che ne viene fatto. Anzi, credo che la diagnosi possa svolgere diverse funzioni, alcune delle quali utili, come per esempio attivare risorse, trovare soluzioni a piccoli e grandi problemi della vita quotidiana, dare indicazioni per la scelta di una terapia farmacologica, ove si presenti l’opportunità e altro. La riflessione riguarda quel ripiegamento individualistico cui la diagnosi si presta in un contesto tendenzialmente indisponibile e incapace – non per colpa ma per storia – a sentire il dolore.

Il dolore, la fatica, la confusione appaiono come inconvenienti della vita, imprevisti da prevenire o problemi da risolvere. Secondo la contemporanea cultura della psicoterapia, il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ne è una sua connotazione patologica da trattare. Prima – colpevoli – andavamo dai sacerdoti a confessare i peccati, oggi – malati – andiamo da un terapeuta a raccontare i nostri sintomi. Meglio malati che colpevoli.

“Dottoressa non dormo la notte”.

 “Anch’io” mi capitò di rispondere ironicamente a una paziente durante il primo colloquio.

Oggi è ritenuta traumatica qualunque esperienza spiacevole e la psicoterapia risponde alla domanda di un nuovo conformismo. Ogni generazione affronta le sue complessità. Gli ultimi venti anni sono stati un lento e costante lavoro di aggressione al senso di comunità e alla fiducia nel fatto che in qualche modo ce la caveremo. L’impotenza sociale diventa quella forza motrice verso il ripiegamento su di sé.

L’alternativa alla patologizzazione è la politicizzazione. 

Sentire, pensare e trasformare quello che proviamo, consapevoli che l’emozione non ci appartiene come un oggetto posseduto segretamente. Le emozioni sono condivise e sociali, possono essere utili, non solo alla propria piccola esistenza ma al contesto entro il quale si è inseriti. Questo processo – di una psicoterapia politica, per così dire – è la mia proposta su come non cascare nel guado dell’impotenza e sentirci forse ancora a contatto con il dolore ma anche capaci di trasformarlo.

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