Lutto

Lutto

In quei giorni lo colpì la paralisi dal tronco in giù. Andavamo in un sotterraneo, un corridoio di porte con nomi astronautici di apparecchiature mediche. Lo sorreggevo perché vacillava, afferrato alla schiena dal cancro alle ossa. I passi gli costavano trafitture, non poteva restare in piedi, doveva sdraiarsi. La prima volta in quel corridoio lo feci stendere sopra una barella in attesa di essere ricevuti per il cerchiaggio. E’ una marchiatura a vernice delle zone da irradiare con il laser.  
<Lei non può occupare questa barella>. Spiegai alla persona in camice che mio padre non poteva stare in piedi. Insistette avvicinandosi a lui, allungando la mano per aiutarlo a scendere [...].
Gli altri non facevano più caso a noi, scansandoci soltanto come ingombri fissi [...]. Non chiedevo, non facevo domande, non mi piaceva quel modo efficiente solo a sbrigarsi, organizzato sulla parola d’ordine <avanti un altro>. Mio padre moriva, nelle sue ossa c’erano già metastasi, questo sapevo. Ogni curiosità era superflua e, per me, oscena. Una notte si alzò per andare al gabinetto e crollò a terra. Non aveva più controllo del corpo al di sotto del bacino. Era paralizzato, il laser l’aveva spezzato in due. Lo raccolsi da terra che piangeva di stupore. Nessuno ci aveva avvisato del rischio, nessuno spiegò che non poteva nemmeno pisciare [...].
Ci si affida a gente sapiente con camici splendenti di bucato dietro scrivanie ordinate. Fanno calcoli, prendono la mira, programmano e non sono buoni nemmeno a centrare la tazza quando vanno al bagno. Non mi ribello a loro, non impreco alla loro superbia, credo ad un Dio delle pene che provvede a ripartirle. Mi fa male invece la speranza che sta negli occhi dei feriti, mi fa male la loro docilità
”.

Con queste parole, Erri De Luca descrive la malattia e la sua personale elaborazione del lutto del padre nel racconto In alto a sinistra, che dà anche il titolo alla raccolta che lo contiene. Un racconto che ormai ha quasi 30 anni e che testimonia quanto la medicalizzazione della morte e del dolore possa produrre una sofferenza emozionale, ma anche morale e filosofica, che influenza direttamente il ricordo degli ultimi istanti di vita di una persona cara e dunque anche l’elaborazione della perdita.

Certamente la medicina ha fatto notevoli passi avanti nella gestione del rapporto con i malati terminali e con i loro familiari, ma ancora capita di sentire il lamento di chi, nell’attimo di maggior bisogno di conforto, è costretto a confrontarsi con prassi burocratiche e codici da catena di montaggio, che rendono alienante l’esperienza della morte. Anche la psicologia non è sempre esente da responsabilità. Nella necessità di definire il confine labile fra il lutto normale e quello patologico, assume talvolta criteri quantitativi. Un lutto è definito patologico quando la sofferenza, la tristezza, la rabbia per la perdita si prolungano oltre i 12 mesi dalla morte del parente. Un criterio indicativo, di matrice psichiatrica, che tuttavia da solo non è sufficiente a definire quando la situazione sta degenerando in una reazione difficile da gestire.

L’elaborazione del lutto è un processo che richiede tempo, ma anche tante risorse emozionali per essere affrontato. E’ prima di tutto un percorso di elaborazione simbolica di ciò che abbiamo interiorizzato della persona venuta a mancare e dell’angoscia che la malattia ci evoca. Ha a che fare con il valore che diamo al tempo, ci confronta con i limiti che ogni relazione comporta, anche quelle che termineranno in breve tempo. 

Come collettività, veniamo da un periodo che ci ha costretto a ridefinire il senso che attribuiamo alla morte nel nostro quotidiano. L’illusione di poterla allontanare e relegare in centri specializzati o derubricare a fatto di cronaca è stata presto spazzata via dalle immagini delle bare trasportate fuori da Bergamo durante la prima fase pandemica.
Avere strumenti psicologici per elaborare il lutto non è una variabile individuale, che c’è o non c’è a seconda di una struttura di personalità più o meno equipaggiata. Riappropriarsi di riti collettivi, dispositivi lavorativi e sostegni sociali che permettano di integrare il tempo del lutto nelle nostre vite è una necessità che ci riguarda da vicino.

Ciò non toglie che ciascuno di noi conservi ricordi privati della persona defunta. Ricordi che raccontano la propria storia e quella condivisa con chi non c’è più. Erri De Luca, ad esempio, riconosceva nella cura dei libri l’eredità del padre:

I libri siamo noi, gente che si ammala, si sfilaccia, ingiallisce e viene dimenticata. Sono a immagine della nostra vita. Ama un poco anche i libri del tuo tempo, ama un poco i tuoi anni che sono quelli che passano e non quelli che ti restano”.

PrecedenteUna stanza piena di gente
SuccessivoPost-vacation Blues