Il caso degli Hikikomori

Il caso degli Hikikomori

Anna ha 20 anni e mi dice che di recente le è stata diagnosticata un’ansia sociale. Il suo disagio certamente la preoccupa, ma essere riuscita finalmente a dare un nome a “quello che ha” in qualche modo le dà sollievo. Ora sa di “avere una malattia”, dissipando quell’alone di mistero e sgomento che circonda chi vive un disagio mentale e la sua famiglia. Adesso la sua tendenza a mettere in atto meccanismi di difesa quali l’evitamento e il ritiro sociale, così come la sua ipersensibilità alle critiche altrui o il timore di provare vergogna e umiliazione nei contesti sociali, assumono forma e sostanza, diventano palpabili grazie alla definizione della diagnosi.

La nosografia medica e psichiatrica, attraverso le etichette diagnostiche, inquadra e categorizza ciò che per definizione è fluido, cangiante, sfumato: l’emozione entro le relazioni sociali. 

Negli ultimi decenni un numero sempre più consistente di persone parla pubblicamente dei propri disturbi mentali, in particolare le nuove generazioni e le personalità del mondo dello spettacolo, della musica e dello sport. 

Questo tipo di confessione pubblica ha i suoi vantaggi, sottraendo tali disturbi allo stigma sociale e rendendo la malattia psichica una materia di cui è possibile parlare e di cui non vergognarsi più.

D’altra parte, c’è una sorta di ossessione per la diagnosi che sta cambiando profondamente il modo in cui la società tratta il confine tra normale e patologico. Secondo il sociologo Frank Furedi, viviamo in una cultura imperniata sull’imperativo terapeutico. Il proliferare di figure consulenziali più o meno limitrofe alla psicologia - anzi, che spesso non hanno alcuna formazione psicologica - sembra accompagnare la promessa di poter controllare e “curare” qualsiasi difficoltà della vita, dall’ansia alla depressione, dai conflitti familiari a quelli con l’autorità, dall’insoddisfazione esistenziale alle performance lavorative. 

Furedi è un nostalgico del self-made man che affronta in solitudine (ancor meglio in silenzio) le proprie turbe emotive, senza la necessità di ricorrere a una moltitudine di professionisti della salute, sintomo di una società in decadenza e sempre più fragile.

Al netto della sua visione arcaicizzante, Furedi coglie, tuttavia, la medicalizzazione del vissuto psichico che è in atto. 

Il disagio mentale, infatti, è sottratto allo stigma e alla vergogna non per l’accettazione dell’esperienza emozionale problematica, né per il riconoscimento della natura relazionale delle emozioni, anche quando intense e apparentemente incomprensibili per chi non ha categorie di lettura psicologiche.

Il vissuto emozionale conflittuale e le difficoltà che esso comporta per le persone che interagiscono con chi sperimenta il disagio, vengono semplificate attraverso l’etichetta diagnostica, che rassicura, delegandone la gestione alla medicina e sollevando il contesto sociale dal coinvolgimento diretto nella genesi e nella gestione del vissuto stesso. 

Il modello medico per lungo tempo ha avuto successo, distinguendo la malattia dall’individuo, come male altro da sé da combattere attraverso l’intervento ortopedico. 

Una persona che prende una polmonite, ha una polmonite, non è un polmonitico. 

In psichiatria, questa distinzione decade (chi ha una depressione è anche un depresso), ma la diagnosi, incentrata principalmente sul paradigma individuale, ha senso nel momento in cui permette di selezionare il tipo di farmaco per alleviare i sintomi. 

La psicologia, intesa come disciplina delle relazioni, perde la sua peculiarità nel momento in cui va alla ricerca di invarianze come fa la psichiatria, anziché inserire il vissuto emozionale (l’ansia, l’umore depresso, l’aggressività, etc.) all’interno di un sistema di relazioni che rappresentano il contesto entro cui quelle emozioni assumono un senso.
In questo processo, questa improvvisa attenzione alla psicodiagnosi da parte della società civile sembra essere più in linea con l’assetto culturale imperante negli ultimi decenni, che un’evoluzione verso l’integrazione del disagio psichico nell’ambito di ciò che è socialmente accettabile.
Lo stereotipo individualista emerge con evidenza nel momento in cui l’etichetta diagnostica viene attribuita alla disposizione individuale (un tempo si diceva al carattere, oggi alla personalità), a un malfunzionamento interno - di natura chimica, genetica, neurologica, etc. - perdendo completamente di vista il senso relazionale che essa dovrebbe restituire.

Per fare un esempio di ciò di cui stiamo parlando, il caso degli Hikikomori è emblematico di questo processo. Quello degli Hikikomori è un fenomeno nato in Giappone, diffusosi in Europa prima nei paesi scandinavi e poi in Italia e coinvolge un numero sempre più ampio di adolescenti e giovani adulti che scelgono l’isolamento sociale come meccanismo di difesa nei confronti della vita adulta e del mondo esterno, vissuto come pressante e spaventoso. 

Su diversi siti che parlano del tema, sono elencate le cause del fenomeno. Balza subito agli occhi che, nella maggior parte dei casi, il primo aspetto evidenziato è quello “caratteriale”. L’hikikomori avrebbe una sorta di predisposizione individuale e innata a isolarsi e a vivere con disagio le relazioni sociali.

E’ interessante, tuttavia, ascoltare dalla voce diretta di un hikikomori la propria esperienza. Su diversi canali Youtube e in generale in rete si trovano molte interviste a questo tipo di ragazzi e ragazze.
In una di queste interviste, il conduttore parte subito mettendo in chiaro le cose: “diciamo che la tua era una ricerca della solitudine dovuta a una tua predisposizione personale, ma cosa ti ha portato poi all’isolamento vero e proprio?”

L’aspetto caratteriale è la base che porta al sintomo, secondo la concezione di chi sta intervistando. In realtà, il racconto successivo è impressionante nella sua capacità di smontare il pregiudizio individualista. Ne emerge una storia costellata di esperienze relazionali traumatiche o comunque vissute come tali: un conflitto fra il datore di lavoro e il padre del ragazzo, che impedisce allo stesso padre di andarlo a prendere a scuola a fine giornata; un rapporto complicato con il contesto scolastico, con un passato di bocciature e incomprensioni con gli insegnanti; un contesto amicale ricco e vitale, la presenza di una fidanzata con cui poi si lascia; il trauma di vedere l’ex fidanzata baciarsi con uno dei suoi migliori amici.

L’isolamento, dunque, diventa un agito all’interno di un sistema di relazioni vissute intensamente dal punto di vista emozionale, più che una caratteristica intrinseca dell’individuo. Ciò che sembra mancare non è quindi una “predisposizione alla socialità da parte dell’individuo”, quanto uno spazio per pensare le emozioni vissute. 

Il ritiro emozionale è una risposta al vissuto di rifiuto sperimentato entro relazioni sociali. Trattarlo come disposizione individuale causa una perdita di informazioni e significati fondamentali per permettere l’evoluzione del sintomo. Individualizzare e reificare il vissuto relazionale come “comportamento disturbato” rende intrattabili le emozioni della persona che si isola per comunicare qualcosa: la frustrazione della bocciatura; il tradimento vissuto nella relazione con l’amico e la ex ragazza; il senso di abbandono nel non trovare suo padre fuori da scuola come accadeva ai compagni di classe.

Una perdita di valore psicologico immensa, che condanna la persona isolata a un continuo contrappasso dantesco. L’isolamento come azione con un significato sociale, ridotta a mera caratteristica individuale da “risolvere” appunto da soli.

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