Ricordo che intorno ai trent’anni, quando un’amica del gruppo ristretto, nato durante la scuola e fiorito tra alterne fortune, iniziava una relazione amorosa di cui era tanto entusiasta da non vedere l’ora di far conoscere alle altre il virtuoso protagonista, c’era immancabilmente Daniela che commentava: “aspetta, fallo decantare, poi vediamo”. L’ipotesi di lavoro era che all’inizio l’entusiasmo fosse scontato e che - come per il vino - il contenuto dovesse prendere aria, per eliminare il superfluo e stabilizzarsi, mostrando il suo vero carattere. Se per il vino, tuttavia, l’attesa è che la posa lo migliori, nelle parole di Daniela c’era il cinico sospetto che il carattere che si sarebbe rivelato sotto l’ardimento scoppiettante dell’inizio avrebbe immancabilmente previsto una delusione.
C’è da dire che, all’interno di una coppia, spesso non manca di arrivare la fatidica frase: non sei più quello di una volta.
Ma chi era quello di una volta? E quando sarebbe quel tempo di una volta?
Sappiamo che, sul piano psicologico, le prime fasi di un innamoramento sono cariche di proiezioni. Sotto l’egida del desiderio di unione e condivisione, costruiamo dell’altro un’immagine che ha una buona parte di idealizzazione; idealizzazione che reciprocamente viene sostenuta dal mostrare soprattutto quello che pensiamo o intuiamo che l’altro consideri desiderabile.
Sotto il fuoco incrociato delle proiezioni il rapporto inizia a camminare. D’altra parte, se non ci fosse questo movimento sostenuto dal desiderio, sarebbe quasi impossibile sostanziare un’intimità così rapida con qualcuno che non conosciamo, che sa davvero molto poco di noi. Poi le proiezioni si affievoliscono e i tratti caratteriali più strutturali e profondi emergono. Ma sarebbe un errore dire che si torna a quello che si era prima. Perché, se tutte le esperienze che facciamo hanno la capacità di trasformarci, niente - in questo senso - ha più potere dell’incontro amoroso. Nessuna sorpresa, in fondo. Le relazioni affettive sono consustanziali al nostro divenire. Nasciamo nella relazione, gli scambi con i primi oggetti d’amore, come ci insegnano la psicoanalisi e gli studi dell’infant research, impastano la nostra sostanza, lasciano tracce profondissime, condizionano il nostro pensiero e i nostri comportamenti.
C’è stato poi, culturalmente, un tale viraggio verso l’individualismo che il potere dell’altro di cambiarci ha iniziato a suonare come un’ammissione di debolezza. La dipendenza è diventata un concetto sinistro, che configura l’incapacità del singolo di autodeterminarsi, di perseguire i propri obiettivi senza l’intralcio dell’aspettativa dell’altro, senza - anche - lo stesso bisogno dell’altro. Essere indipendenti è un obiettivo in luce. Essere dipendenti è un abisso.
Complessificando questo universo di significazioni, non si può che mettere in campo un principio di modulazione. È ovvio che un rapporto che non consenta all’altro di muoversi è un rapporto tossico e disfunzionale. È anche vero, d’altra parte, che esiste una reciprocità di bisogni in cui le persone possono crescere, accrescersi, cambiare e cambiarsi. L’altro, se ne accogliamo l’irriducibile alterità, diventa veicolo per esplorare parti molto profonde di noi stessi. Direi che ci sono luoghi dell’essere che sono inaccessibili fuori dalla relazione. Seguire la proposta dell’altro ci porta ad allargare il nostro orizzonte, ad annettere territorio. Alcune vibrazioni di sentimento, alcuni bisogni, alcuni moti passionali senza la relazione restano in silenzio.
Che la relazione impedisca la libertà è un assunto che vale la pena guardare con attenzione, perché può nascondere un pregiudizio o un’aspettativa irrealistica rispetto alle proprie possibilità. Rispecchiarsi nell’altro offre agli individui l’occasione di non sentirsi soli e, sul piano psicologico, sappiamo quanto il senso di solitudine possa generare paura e poi immobilità. Perché la relazione si sottragga al topos della costrizione e della rinuncia, d’altra parte, è necessario che le persone siano capaci di mantenere viva la curiosità verso la differenza dell’altro, perché la differenza è un ingrediente generativo e onorarla aiuta a limitare i rischi della sclerotizzazione in strutture stereotipate, tradizionali, inautentiche.
Al di là dei fumi dell’innamoramento, la relazione può essere il contesto di grandi rivoluzioni.