La persona depressa

La persona depressa

“Ci vuole un po’ di forza di volontà”
“Dovresti uscire di più ed incontrare persone”
“Non buttarti giù, sono certo che ne uscirai”
“Perché non provi a fare un po’ di sport?”

Potrei continuare all’infinito nel compilare il prontuario dei consigli che il senso comune dispensa alle persone che vivono episodi depressivi più o meno gravi.
Di queste espressioni, chiunque abbia vissuto periodi della propria vita nei quali l’umore era sotto le scarpe, ne ha sentite diverse. Soltanto negli ultimi anni, tuttavia, si sta sviluppando una reazione stizzita verso queste frasi stereotipate. Reazione che, nel suo intento originario, sarebbe orientata alla diffusione di una cultura della depressione, fondata sulla consapevolezza che il male di vivere non sia semplicemente una carenza di motivazione, quanto una malattia profonda e dilaniante che non si risolve con i precetti del buon confessore.

Eppure mi sembra che in questo proposito di sensibilizzazione manchi l’approfondimento di ciò che sperimenta emozionalmente chi interagisce con la persona depressa. Ancor meglio, manca completamente un’analisi del senso relazionale di quelle frasi di senso comune. 

In questo senso mi è venuto in mente quel meraviglioso quanto agghiacciante racconto di David Foster Wallace, intitolato appunto La persona depressa, contenuto in Brevi interviste con uomini schifosi, raccolta disturbante ed esemplare della meschinità della natura umana.

Anzitutto un avvertimento. La persona depressa non è ciò che propriamente sceglieremmo come lettura estiva. La calura agostana, la voglia di staccare dalla routine lavorativa, il desiderio di allontanare qualsivoglia stress dalle nostre menti non facilitano certamente ad immergersi nella complessità del racconto, che DFW ha deliberatamente scelto di rendere ostico per motivi ben precisi.
Parlando del racconto perlomeno non rischio di spoilerare e dunque inimicarmi il lettore. La persona depressa, infatti, non parla di nulla, intendendo in questo senso che non racconta eventi, non segue una trama, non ha alcun colpo di scena, né soprattutto alcuna evoluzione dei personaggi. Tutto sembra sospeso in un eterno istante reiterato all’infinito. Un primo elemento che già ci fa intuire l’ambizione del racconto di Wallace.

La persona depressa è un lungo soliloquio di una donna che parla alla sua terapeuta (l’unico personaggio che ha una fine inattesa - e questo no che non lo spoilero) dei suoi sentimenti, delle sue paranoie, dei suoi pensieri ossessivi.
Nel corso di tutto il racconto ci sono 3 enti, dati per astratti sin dall’inizio, che sostengono la narrazione: la persona depressa (che non ha nome), la terapeuta (che non ha nome) ed il Sistema di Sostegno della persona depressa, cioè un gruppo di amiche e conoscenti che la persona depressa contatta quotidianamente, su invito della terapeuta, per continuare a raccontare i suoi drammi interiori senza soluzione di continuità.
Wallace sceglie di non dare un nome a questi personaggi per due motivi. Da una parte l’astrazione rievoca certa modellistica psicoterapeutica, che potremmo rappresentare graficamente come un triangolo:

La persona depressa





La terapeuta                        Il Sistema di Sostegno

È un modo che permette all’autore di ironizzare su una diffusa tendenza a tecnicizzare l’analisi da parte di alcuni modelli terapeutici.
Il secondo motivo è però più importante. Il lettore non deve in alcun modo identificarsi con nessun personaggio. L’identificazione con questa o quella maschera, impedirebbe di far emergere i veri protagonisti del racconto, che sono il linguaggio e lo stile di pensiero della persona depressa.
Foster Wallace, infatti, si propone un progetto visionario: raccontare la depressione come significante. Sin dalle prime pagine del racconto si intuisce che ciò che è interessante non è quello che accade, né il tipo di emozioni che la persona depressa racconta, quanto il complesso linguistico che compone e dà ritmo al discorso. Ci si ritrova così in un lunghissimo flusso di coscienza fatto di digressioni, elucubrazioni, reiterazioni, flashback, incisi e rimandi.
Il lettore fa una fatica immensa a seguire la narrazione ed è proprio ciò che l’autore desidera. Entrare dentro la forma mentis depressiva significa perdere i riferimenti temporali, l’ancoraggio ad eventi concreti, per inoltrarsi e sprofondare nell’oscurità informe ed omogenea del pensiero del depresso, che è razionalizzante, ma che è allo stesso tempo dominato da un’unica qualità emozionale, che si ripete all’infinito e che sembra non avere vie d’uscita.

C’è solo un passaggio nel racconto di Wallace, in cui il lettore crede per un attimo di poter uscire e prendere aria, per poi ritrovarsi ancor più devastato. La persona depressa sta parlando al telefono ad una delle amiche che compongono il Sistema di Sostegno, che scopriamo essere malata di cancro. Un dato di realtà sconcertante che tuttavia è fagocitato dal monologo della persona depressa, che continua a descrivere minuziosamente i suoi pensieri, il suo senso di colpa, le sue ferite, mentre l’amica, affaticata dalla malattia, continua ad ascoltarla eroicamente. 

In sintesi, Wallace non vuole solo parlare della sofferenza della depressione, ma soprattutto vuole far sentire al lettore il senso di impotenza, di noia e di angoscia che la depressione evoca in chi ascolta. Ed è proprio quel senso di impotenza che porta il senso comune a propinare consigli pratici - che sembrano decontestualizzati e dunque insensibili - come reazione più o meno aggressiva al vissuto dell’altro, in una dinamica relazionale complessa, nella quale le strategie difensive e di distanziamento dall’angoscia non riguardano solo chi vive il disagio psichico, ma anche chi ci entra in rapporto.

Creare una cultura della depressione allora non significa solo criticare lo stereotipo sociale verso la malattia, ma anche sviluppare competenze emozionali per relazionarsi con una sofferenza con cui è difficile empatizzare

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