Omosessualità

Omosessualità

“È una storia da dimenticare
è una storia da non raccontare
è una storia un po’ complicata
è una storia sbagliata”

Nel 1980, Fabrizio De André pubblica “Una storia sbagliata”, brano dedicato a Pier Paolo Pasolini, lo scrittore ucciso cinque anni prima all’idroscalo di Ostia.
La storia da dimenticare, da non raccontare, “insabbiata”, è quella dell’omicidio del poeta, avvolto tutt’ora dal mistero, un’esecuzione che il cantautore genovese sintetizza efficacemente definendola “da basso impero”.
Pasolini ha fondato la sua intera esistenza sullo scandalo. Le sue posizioni anti-capitaliste, le sue opere che hanno raccontato la violenza totalizzante sui corpi e sulle menti da parte del potere, fino alla sua vita privata di artista omosessuale in una società fortemente bigotta, lo hanno portato a incarnare in vita e in morte ciò che la cultura dell’epoca definiva “sbagliato”, non ortodosso.

Se l’ortodossia rimanda al dogma, a ciò che è definito come inviolabile dal punto di vista simbolico e religioso, il versante scientifico della norma sociale è l’ortopedia. L’intervento ortopedico, in medicina, è l’atto volto a riportare una condizione di patologia entro i ranghi della norma che si presume sia la condizione naturale di salute.

Se tale intervento ha la sua efficacia e il suo senso sul versante fisico, ad esempio quando si interviene per riportare “entro la norma” i valori del colesterolo attraverso la prescrizione di farmaci e di una dieta povera di grassi, il concetto diventa problematico quando parliamo di salute mentale.

La psiche non ha una “conformazione” statica o parametri misurabili in modo univoco. A dirla tutta, la psiche non può essere misurata. La stessa eziopatogenesi di quelli che sono definiti in psichiatria “disturbi mentali” non è assolutamente chiara, né siamo vicini a comprenderla, nonostante gli sforzi profusi dalle neuroscienze, che provano a ricondurre la mente al suo substrato biologico, il cervello.

Non a caso, il DSM, il manuale diagnostico dei disturbi mentali, si presenta come un’infinita classificazione di sintomi, che sono epifenomeni della psiche, cioè quello che risulta visibile e “quantificabile” del comportamento umano: insonnia, autolesionismo, eloquio, tono umorale e via dicendo.

L’applicazione del paradigma medico e ortopedico all’indagine dello psichico risulta problematica perché, in assenza di parametri oggettivi cui la medicina può fare riferimento in altri ambiti, la valutazione - quella che chiamiamo diagnosi psichiatrica - è profondamente influenzata dai pregiudizi e dalle aspettative sociali del clinico e della cultura di appartenenza.

Su questo punto si impernia la differenza di mandato fra l’intervento psicologico e quello medico-psichiatrico. Se il secondo ha lo scopo di ridurre il deficit - pensiamo all’ipotesi psichiatrica che i disturbi d’ansia siano la conseguenza di una scarsa permanenza della serotonina all’interno dei circuiti sinaptici - il primo ha l’obiettivo di dare senso alle emozioni e comprenderne la funzione simbolica, nel mondo interno e relazionale della persona.

Qualcuno potrà pensare che i disturbi d’ansia esistono, il disturbo borderline esiste, il disturbo bipolare esiste. Un’esistenza che si fonda sul confronto quotidiano con le emozioni, che possiamo sperimentare, a diversi gradi, tutti quanti.
L’aspetto problematico emerge quando tentiamo di definire come patologico un vissuto, una condizione psichica, persino un orientamento sessuale. 
Se l’ansia esiste, il tentativo di definire quanta ansia sia normale e dunque tollerabile e quanta, invece, sia disfunzionale e dunque patologica, è un atto arbitrario, non applicabile in senso universale. Dipende dalla sensibilità della persona, da quella del clinico, e anche dai valori socio-culturali che definiscono cosa sia accettabile e cosa non lo è.

L’esempio più calzante in questo senso è la “storia sbagliata” dell’omosessualità, che per lungo tempo è stata considerata una deviazione morale, per poi essere spinta a forza fra le maglie del disturbo mentale. 

La storia del rapporto fra medicina moderna e omosessualità, in verità, era cominciata in modo per noi contro-intuitivo. Il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, in una lettera del 1935 rivolta a una madre preoccupata perché temeva che il figlio fosse omosessuale, era fortemente convinto che l’orientamento sessuale non fosse un problema clinico:

Deduco dalla tua lettera che tuo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non utilizzi questo termine quando dai informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo eviti? L’omosessualità non è di certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come una malattia, riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni sono stati omosessuali, molti dei quali sono stati grandi uomini”.

Freud considerava l’omosessualità una “variazione della funzione sessuale”, dunque pur avendo in mente un qualche tipo di “norma”, la considerava una diversità, ma non certamente una malattia. L’aspetto più interessante è che Freud era perfettamente consapevole dell’influenza della cultura nella valutazione dell’omosessualità (“non è di certo un vantaggio”), dal momento che la società dell’epoca perseguitava gli omosessuali. 

Nonostante le premesse autorevoli, gli psichiatri e i clinici che vennero dopo Freud non vollero seguire le sue considerazioni e, in particolare la psichiatria americana, fortemente inquinata dalla morale puritana dell’epoca, cominciarono a trattare l’omosessualità come disturbo mentale e comportamentale. 

Nel 1952, quando uscì la prima edizione del DSM, l’omosessualità venne classificata come condizione psicopatologica inserita tra i “Disturbi sociopatici di Personalità”. Nel 1968 era considerata una deviazione sessuale, come la pedofilia, catalogata tra i “Disturbi Mentali non Psicotici”.
Per decenni, l’idea che l’orientamento sessuale fosse una patologia da curare in senso ortopedico portò a sottoporre uomini e donne omosessuali a tremendi interventi correttivi del comportamento e delle pulsioni, fantasticando di poter ricondurre a norma la sessualità “deviata”, talmente disprezzata da essere ritenuta un sintomo di sociopatia, cioè un’aggressione verso le regole sociali, ancor prima che una violazione dello stato di natura.

Tuttavia, nel mare magnum delle diagnosi psichiatriche, qualche ricercatore tentava di andare in direzione ostinata e contraria, per citare ancora De André. È l’esempio del rapporto Kinsey (Kinsey 1948; Kinsey et al.1950,1957), che rilevò come almeno il 37% della popolazione maschile e il 13% di quella femminile avesse avuto qualche esperienza omosessuale tra la pubertà e la vecchiaia: “se l'omosessualità persiste su così vasta scala nonostante la riprovazione pubblica e la severità delle sanzioni che nel corso dei secoli la civiltà angloamericana ha posto su di essa, si ha motivo di ritenere che tale attività comparirebbe con assai maggior frequenza nelle storie personali se non esistessero impedimenti sociali”.

Ci vollero decenni prima che l’omosessualità venisse eliminata dal DSM come disturbo mentale: nel 1974 come “variante egosintonica” e soltanto nel 1987 come “variante egodistonica”. Nel 1990, anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità decise di depennare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.

La derubricazione dell’omosessualità dall’elenco delle patologie mentali fu l’esito di lunghe battaglie da parte degli attivisti per i diritti delle minoranze di genere e della lungimiranza di alcuni clinici che si rendevano conto della violenza sociale, mascherata da intervento di cura, cui erano sottoposti gli omosessuali.

La storia dell’omosessualità è esemplare di quanto possa essere pericoloso trattare i vissuti, le inclinazioni e i comportamenti umani come deficit da ridurre o come sintomi da eliminare.
Oggi, fortunatamente, nessuno psichiatra - o quasi nessuno - considera l’orientamento sessuale un indizio di patologia. Tuttavia, il paradigma ortopedico persiste in altre forme: troppa tristezza è depressione, troppa ansia è attacco di panico, troppa incoerenza è disturbo borderline. Una visione quantitativa della psiche e delle emozioni che continua a perpetuare la visione di una mente che può essere ricondotta alla norma, alla “giusta misura”.

Non è così - o perlomeno non dovrebbe essere così - per la Psicologia, che considera le emozioni e i vissuti nel loro versante simbolico, da comprendere e approfondire per dare loro senso, all’interno del mondo relazionale della persona. Un modo per promuovere il benessere, evitando di cadere in nuove “storie sbagliate”.  

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