Nell’immaginario collettivo l’imprenditoria è legata a tratti individualistici e narcisisti, ma un modello diverso è possibile.
Il mondo della finanza e dell’alta imprenditoria non è visto di buon occhio dall’opinione pubblica ormai da decenni. Complici certamente sono la crisi economica del 2008, ma anche una serie di opere cinematografiche che, con qualche estremizzazione, hanno raccontato un mondo tossico e maniacale. Un mondo spinto sino al parossismo da alcune inchieste giornalistiche - stavolta fondate su vicende reali - che hanno provato ad entrare nel mondo, spesso enigmatico e oscuro, degli intermediari finanziari, dei broker e dei dirigenti d’azienda.
Già negli anni ‘80, lo psicologo polacco Andrew Lobaczewski, per descrivere la brutalità e la violenza dei mezzi utilizzati dai leader sovietici, coniò il termine di patocrazia, per identificare quel fenomeno che favorisce l’occupazione di posizioni di potere da parte di persone con disturbi mentali, in particolare la psicopatia.
Il concetto è stato esteso poi dallo psicologo Steve Taylor, che ha approfondito in diversi articoli e ricerche come le persone con tratti psicopatici e disturbi di personalità narcisistici sono attratte dalle posizione di potere - in politica, ma anche in economia e finanza - evocando un fascino popolare problematico a diversi livelli.
Tali disturbi, infatti, vengono definiti “disturbi della disconnessione”, caratterizzati da una scarsa empatia e uno scarso interesse verso la sofferenza dell’altro, oltre a elevate capacità manipolative e persuasive.
Se durante l’esperienza politica di Trump si è parlato molto di patocrazia, per il mondo della finanza si parla ormai da tempo di Corporate Psychopats Theory. Nella nostra cultura, l’immagine del broker finanziario arrivista, edonista, attratto esclusivamente da soldi, potere e tutte le possibili esperienze estreme che la vita permette (dall’uso di droghe alla sessualità promiscua e ossessiva) è stata ampiamente sdoganata dal film The Wolf of Wall Street, legando indissolubilmente l’alta finanza al racconto di un mondo depravato.
Questa visione della leadership finanziaria ha però oltrepassato i confini della finzione, tanto da portare uno dei più grandi psicoanalisti italiani, Luigi Zoja, a sostenere che i disastri finanziari degli ultimi 15 anni non sono stati causati «da immoralità occasionali di persone che hanno sbagliato e che quindi possono pentirsi, ma da perversioni morali permanenti che, se non fossero state scoperte, sarebbero continuate perché non lasciavano sensi di colpa». Dalle parole di Zoja emerge un dato che appare strutturale, almeno in parte. Il famoso fine che giustifica i mezzi si confronta con i limiti e le deviazioni della personalità umana: la perversione morale è una tendenza all’individualismo e alla sopraffazione, disposta a qualsiasi strumento pur di raggiungere il proprio piacere e appagamento, anche se esso può arrecare danni ad altri.
L’aspetto più interessante è che questa narrazione è legata esclusivamente alla leadership maschile (anche se non tutti i leader maschili sono psicopatici o narcisisti). Gli esempi di leadership aziendale femminile hanno caratteristiche molto diverse.
Basti pensare ai valori proposti da Chiara Ferragni: autonomia, autodeterminazione, ma anche coesione e collaborazione fra donne e fra donne e uomini.
Oltre la leadership carismatica e individuale, sembra sempre più farsi largo quella che viene chiamata leadership relazionale, che sarebbe particolarmente sviluppata nelle imprenditrici.
In un testo di qualche tempo fa, la ricercatrice Paola Paoloni descrisse l’esperienza imprenditoriale femminile, caratterizzata da un networking approach, che non solo è in grado di integrare la vita lavorativa e quella privata, ma soprattutto permette lo sviluppo del capitale relazionale, cioè l’abilità a costruire relazioni indispensabili tanto nelle fasi di start-up, quanto nelle fasi di espansione dell’impresa.
La competenza relazionale mette in discussione il modello “narcisistico-psicopatico” dell’uomo al potere, proponendo un tipo di successo che valorizza le relazioni, l’empatia e la capacità di comprendere i bisogni dell’altro in funzione delle finalità aziendali.
L’aspetto essenziale da comprendere è che tali modelli “maschili” e “femminili” non sono ineludibilmente vincolati al sesso ed al genere come potrebbe apparire. La leadership relazionale potrebbe diventare con il tempo il modello vincente, adottato indifferentemente da uomini e donne, ma fondato su quanto già il femminile è in grado di esprimere.
Un modello di successo che guarda alle relazioni, al gruppo e all’organizzazione, senza rinunciare alla soddisfazione personale.