Dottoressa, mi dica di lei

Dottoressa, mi dica di lei

“Dottoressa, come sta?”

Clotilde inizia sempre così le sue sedute settimanali. Dentro quella domanda sento tutto il potere seduttivo dell’amicalità. Mi piacerebbe risponderle, oh sì! Raccontarle della notte insonne per via dei gatti di casa, o chissà quali altre amenità. Non è semplice tenere la postura interna utile al lavoro analitico per intere giornate. Ma il calore dell’intimità costruita a servizio del lavoro divamperebbe in un incendio distruttivo di chiacchiere e simmetrie relazionali pericolose.

“Mi dica di lei”, rispondo. E, con questo rituale che ci ricorda che stiamo lavorando, prende avvio l’incontro.

Alcune persone – per ragioni le più disparate – chiamano il/la terapeuta a un disvelamento frequente e va valutata con cura l’opportunità o meno di soddisfare tale proposta.

Sulla questione c’è un intenso dibattito nella comunità professionale, sia quella senior che quella nascente degli psicologi in formazione dentro le università. Alcune settimane fa, una studentessa di psicologia in procinto di laurearsi, durante la pausa della lezione - le cose più interessanti mi vengono chieste a tu per tu nella pausa delle lezioni - mi confida che si sarebbe tatuata un braccio la settimana successiva dopo anni di attese e ripensamenti. Rimaneva dentro di lei la preoccupazione che un tatuaggio visibile con un abbigliamento estivo potesse rivelare inopportunamente parti di sé. Lo diceva a me in quanto professionista e docente di un laboratorio sulla deontologia, simbolo – nelle fantasie degli studenti – di obblighi di condotta stringenti. Siamo al crocevia di due questioni: il conformismo che rende il tatuaggio più inopportuno di una foto di famiglia nel setting lavorativo; il mito del terapeuta neutrale e anonimo. Partiamo dalla presunzione di neutralità. A parlarne fu Freud.

Il 7 giugno 1909, a uno Jung angosciato per le conseguenze di un coinvolgimento improprio nella relazione con Sabina Spielrein, scriveva:

Esperienze del genere, sebbene dolorose, sono necessarie e difficilmente ci si può sottrarre ad esse. Solo dopo averle vissute si conoscono la vita e ciò con cui si ha a che fare. Quanto a me, non ci sono cascato del tutto, ma alcune volte mi ci sono trovato assai vicino e ho avuto a narrow escape. Io credo che soltanto le dure necessità in mezzo alle quali il mio lavoro si è svolto e i dieci anni di ritardo rispetto a Lei, prima che giungessi alla psicoanalisi, mi hanno preservato da esperienze analoghe. Ma non fa nulla. Ci si fa in tal modo la necessaria “pelle dura”, e si domina la “controtraslazione[1]” in cui ci si viene a trovare ogni volta, e si impara a spostare i propri affetti e a piazzarli in modo opportuno. È a blessing in disguise.

La “pelle dura” è l’indicazione metodologica al sospendere il coinvolgimento affettivo nella relazione analitica per osservare “con neutralità” la vita emotiva del paziente. Oggi sappiamo che partecipare in modo neutrale ad una relazione terapeutica – ma ad una relazione di qualunque tipo potremmo dire - non è possibile né desiderabile. La scelta di dove incontrare le persone, zona e arredo, abbigliamento, inflessioni dialettali o totale assenza di esse, colore dei capelli, tatuaggi, stile dell’abbigliamento, presenza di libri, appunti cartacei, digitali o audioregistrazioni, dare del tu o del lei, la lista delle occasioni in cui il terapeuta rivela informazioni su di sé è lunga. È importante pensare, fino dove la consapevolezza lo consente, al senso del proprio posizionamento nel rapporto. Differente è quell’operazione di volontario svelamento di sé a opera del terapeuta per richiesta del paziente o intenzione del terapeuta stesso. Viene chiamata self-disclosure. Sotto questo nome ombrello ritroviamo diversi tipi di esperienze, talvolta utili, talvolta meno. Conosciamo il gioco delle seduzioni reciproche tra paziente e terapeuta che trascina gli attori coinvolti in modo molto pericoloso per gli obiettivi terapeutici. Tra questi pericoli si incontra il tentativo, da parte del terapeuta, di occupare spazio della relazione con sé e con la propria emozionalità. Eppure, è difficile evitare del tutto questo rischio. La qualità del rapporto ne risentirebbe burocratizzandosi.

È un territorio scivoloso. Il terapeuta ascolta da dentro la propria esperienza di vita (genitoriale, filiale, amorosa, professionale, civica) e non si dà ascolto se non fortemente colorato da queste tinte. Durante il lavoro, le associazioni del terapeuta alla propria vita sono molte, alcune delle quali può essere utile condividere. Ancora ricordo il racconto della mia analista circa le difficoltà passate con sua figlia. Si era utilmente lasciata trasportare da quanto stavamo condividendo ed era – eravamo – state capaci di usare quel trasporto con competenza: trasportate e non strattonate.

La scelta della giusta distanza o della giusta vicinanza dal paziente può non essere semplice, o automaticamente applicabile in base a una regola ferrea. Allo stesso tempo è importante proteggere la relazione terapeutica dai tecnicismi dell’astenersi sempre e a ogni condizione dal tanto temuto coinvolgimento affettivo che fa saltare il banco e fallire il lavoro. Il rischio è che la conversazione psicoterapeutica precipiti diventando solo una conversazione terapeutica tra tecnico e utente, perdendo tutto quel potere trasformativo – taumaturgico – proprio delle relazioni in cui si è entrambi emozionalmente coinvolti.


[1] In estrema sintesi, per controtraslazione in psicoanalisi si intende la reazione emotivo-affettiva alla relazione con il paziente e alla sua proposta transferale. Si parla infatti di transfert e controtransfert.

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