Dipendenza affettiva

Dipendenza affettiva

E’ la faccia oscura della Luna, quella invisibile eppure presente, che sostiene nell’ombra il gioco relazionale con Narciso, un gioco spesso violento e tragico.
Se Narciso si perde a contemplare il proprio riflesso nell’acqua, Eco si strugge per l’assenza del suo amato che non la cerca, sino a diventare una flebile voce che ripete le ultime sillabe pronunciate dai viandanti, ricordo e simbolo della sua dedizione assoluta, che vive in relazione all’altro ed alla sua mancanza.
Il mito greco da sempre è una fonte inesauribile per descrivere i rapporti umani, le connessioni, gli incastri, gli inganni, anche quando sono rivolti a sé stessi.
Nella letteratura psicologica attuale la coppia composta dal narcisismo patologico e dal dipendente affettivo ha un grande successo popolare.
Il vertice d’osservazione è centrato su ciò che appare chiaramente alla luce dei rapporti d’amore disfunzionali. Il narcisista patologico è egocentrico, privo di empatia, manipolatore, accentra e seduce, ma non potrebbe esistere senza la controparte che si lascia sedurre e che accoglie il rapporto inondandolo di fantasie inconsce spesso onnipotenti e salvifiche.
Io ti salverò è infatti la voce di Eco che illude e si illude di cambiare l’amato, di renderlo una persona migliore e degna d’amore, accantonando il senso che la relazione assume. La dipendenza affettiva è così tramutata in missione, in atto incondizionato che tutto perdona purché resti intatto il legame, anche di fronte alla violenza ed all’umiliazione.

Sin qui il lettore non sarà sorpreso, la dipendenza affettiva evoca culturalmente un vissuto di rifiuto e di preoccupazione, anche perché insidia il suo contraltare di successo, quell’indipendenza individuale su cui la nostra cultura è forgiata da decenni e che rappresenta la massima espressione dell’uomo contemporaneo. Il desiderio di separazione, di unicità e autorealizzazione, necessari per la costruzione della nostra identità, mutano presto nella fantasia di essere soli, onnipotentemente sconnessi dagli altri, che non servono o non sono sufficienti per raggiungere la propria realizzazione personale. L’altro è colui che ti può ferire, che ti può fregare e la diffidenza è l’emozione più diffusa in chi crede fortemente nella propria indipendenza. D’altronde anche storicamente le indipendenze sono state sempre rotture traumatiche: l’Indipendenza americana, mito fondativo della libertà individuale, è stata sanguinosa, fondata sul parricidio simbolico del Re padrone e autoritario.

Nonostante tali miti, sociologi, antropologi e biologi evoluzionisti ci ripetono ormai da decenni che la società umana si è evoluta grazie alla dipendenza dagli altri componenti della propria specie. Se da una parte la società contemporanea è fondata sull’interdipendenza (la gran parte di noi non riuscirebbe a sopravvivere senza acquistare il cibo prodotto da altri), dall’altra sappiamo che la specie umana ha avuto successo proprio perché i neonati hanno avuto a disposizione lunghi periodi di dipendenza dai genitori che li difendevano da pericoli e predatori, permettendo lo sviluppo completo del cervello e delle funzioni cognitive che caratterizzano l’Homo Sapiens.

Perché allora la dipendenza ci angoscia così tanto?
Culturalmente è una parola densa, polisemica. Le immagini che associamo alla dipendenza sono molteplici e spesso contraddittorie.
La dipendenza è stata associata negli ultimi decenni soprattutto al bisogno tossico di sostanze: dipendenza da droghe, alcol, tabacco, cibo. E’ la necessità incontrollata di assumere sostanze, che altera il nostro comportamento ed il nostro benessere, a legare indissolubilmente la dipendenza alla malattia.
La dipendenza, però, è anche la funzione che caratterizza i contratti di lavoro. Il lavoro dipendente, un tempo legato al senso di sicurezza e di stabilità in vista di un futuro possibile, oggi è deprecato proprio perché quella stabilità si è precarizzata. Così, il dipendente è colui che deve stare sotto padrone, che non è libero di gestire il proprio lavoro come vorrebbe, ma che soprattutto non insegue le proprie passioni, preferendo mettersi a disposizione di altri.
Questa narrazione del lavoro dipendente è perfettamente complementare alla narrazione dell’imprenditore di sé stesso. La competenza a svolgere professionalmente una funzione all’interno di un contesto di lavoro diventa automaticamente svilimento del desiderio se non è autonoma, rivolta cioè a perseguire il lavoro come passione, che non può essere altro che individuale.

Eppure, anche quando si è liberi professionisti, il nostro lavoro non esisterebbe senza committenti e clienti, senza l’incontro fra competenze e obiettivi. Anche nella torre d’avorio più sgargiante, l’interdipendenza e dunque la relazione con l’altro sono sempre necessarie. 

Spiace dirlo, ma anche i rapporti d’amore si basano sulla dipendenza dall’altro. Amare ci rende fragili proprio perché ci pone di fronte ai nostri desideri che coinvolgono l’altro e lo rendono parte di una relazione che non può essere che diadica e di scambio.
Il rapporto di Narciso ed Eco, dunque, non è l’immagine della dipendenza. Semmai è il simbolo di un’interdipendenza impossibile, che si chiude solipsisticamente nella contemplazione di due perdite. Narciso si perde nel proprio riflesso, Eco perde il proprio corpo, per diventare riflesso della voce dell’altro.
In questa storia non ci sono né dipendenza affettiva, né relazione. C’è l’annullamento del rapporto con l’altro, la forma più estrema di indipendenza.

 

PrecedenteContro l’empatia o quasi
SuccessivoIl diritto all'oblio