Il diritto all'oblio

Il diritto all'oblio

Cambiaste un Ferrari por un Twingo
Cambiaste un Rolex por un Casio

In questi giorni la canzone scritta dall’artista colombiana Shakira contro il suo ex storico, il calciatore del Barcellona Gerard Piquè, sta facendo il giro del web.
Il successo del testo certamente risiede non solo nel contesto del dissing (quella pratica, non solo propria dell’ambito musicale, ma anche di quello letterario, attraverso la quale gli artisti si scagliano contro rivali e nemici a colpi di versi), ma anche per l’uso di immagini immediatamente evocative e commerciali: il Rolex e la Ferrari come simboli di lusso e bellezza, il Casio e la Twingo come elementi di paragone miseri e raffazzonati.
La storia dell’infedeltà del giocatore blaugrana e la rottura con la star pop è di dominio pubblico e tutto ciò non stupisce. Chiunque sia un personaggio pubblico mette in conto che qualsiasi parte della sua vita possa diventare argomento di discussione sociale, anche quando non riguarda il proprio lavoro o la propria immagine strettamente pubblica.

Questa ipertrofia pubblicitaria diventa ancora più evidente, ma problematica, nel momento in cui, grazie ad Instagram e Tik Tok, chiunque può rapidamente diventare virale e dunque perdere i confini che separano la propria vita privata dal contesto sociale e mediatico.

La scelta di esporre sé stessi, la propria immagine, il proprio corpo al mondo, di per sé non implica una completa rinuncia alla propria riservatezza.
A prescindere dalle regolamentazioni sulla privacy, il discorso sta diventando sempre più culturale, ancor prima che legale.

Cosa accade quando una persona comune, nolente più che volente, finisce sotto i riflettori a causa di una fuga di notizie, oppure per l’eccessivo zelo con cui i media decidono di raccontare la vicenda?
La questione ha risvolti psicologici e sociali enormi, anche se tuttora se ne parla poco. Prendiamo ad esempio un fatto avvenuto pochi giorni fa negli Stati Uniti. Un’agente di polizia donna è stata scoperta intrattenere rapporti sessuali con 5 colleghi. Tutti i poliziotti sono stati sospesi dalla loro funzione, perché l’episodio si è svolto ripetutamente quando erano in servizio, comportamento non professionale che ha portato al licenziamento.
Fin qui la notizia ci può apparire accettabile: esistono delle regole di condotta che vanno rispettate. Il punto è che i media locali, nazionali ed internazionali hanno cominciato a narrare la storia arricchendola di elementi non proprio rilevanti, dietro la motivazione del diritto all’informazione ed alla libertà di stampa. Così si viene a sapere che la poliziotta è sposata e che avesse detto ai colleghi che era in una “relazione aperta” (sic) con il marito, con tanto di virgolettato, ad alludere ad una goliardica menzogna da parte della poliziotta. Sui social network all’agente ne sono state dette di tutti i colori, molto più che agli altri colleghi coinvolti, segno di un maschilismo ancora molto diffuso che punisce prima di tutto le condotte sessuali della donna, pur a parità di grado rispetto ai colleghi uomini.

Non ci è dato sapere come stia vivendo attualmente la donna questa situazione. In Italia abbiamo però precedenti molto chiari su quali possano essere le conseguenze psicologiche della gogna pubblica. Alcuni di voi ricorderanno il caso di Tiziana Cantone, morta suicida dopo la diffusione di un video erotico che portò la donna ad essere processata dal tribunale di internet come fedifraga, giudizio accompagnato da altri commenti che preferiamo non riportare.

Nel 1955, lo scrittore americano William Faulkner descrisse il declino del sogno americano nel suo celebre pamphlet Privacy, nel quale accusava i media di allora (i giornali e le riviste cartacee) di aver sospeso il diritto alla riservatezza dell’individuo, a vantaggio dell’informazione pubblica:
oggi in America qualsiasi gruppo o organizzazione, per il semplice fatto di operare sotto la copertura di una espressione come Libertà di Stampa o Sicurezza Nazionale o Lega Anti-Sovversione, può postulare a proprio favore la completa immunità riguardo alla violazione della individualità”.

Qualche decennio dopo sarà David Foster Wallace a scrivere, stavolta a proposito della televisione, che la vita dell’individuo si sta trasformando rapidamente in uno show perenne, anticipando The Truman Show di qualche anno. Con lo sviluppo di internet questo processo sta perdendo ogni confine, perché non è quasi più possibile risalire all’origine della gogna pubblica, né identificare coloro che la portano avanti.

Si sta perdendo, dunque, quel diritto all’oblio ed alla dimenticanza, su cui si fonda una parte della nostra identità e del nostro senso di sicurezza personale. La possibilità, anche dopo un errore (se errore è stato), di essere dimenticati, di tornare nell’anonimato della propria vita privata, nel quale scegliamo liberamente chi può conoscere i nostri segreti ed i nostri lati più nascosti, senza che una massa incontrollata possa attribuirci un’etichetta indelebile negli anni.

Il diritto all’oblio come salvaguardia del benessere psicologico, ancor prima che della propria immagine sociale. O meglio, a garanzia di entrambe, sempre più interconnesse nel mondo mediatico odierno.

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