Dal Nulla

Dal Nulla

Dal nulla. Mi ha lasciata dal nulla. Si è arrabbiato dal nulla. Si è licenziato dal nulla.

Li ha uccisi dal nulla.

Scrivo dopo avere letto dell’ultimo evento di cronaca che vede un ragazzo di diciassette anni uccidere tutta la sua famiglia a Paderno Dugnano: “stavo male ma non pensavo di arrivare a tanto” dice agli inquirenti, “credevo che mi sarei sentito più libero senza di loro”. Non è comune che questa rubrica commenti fatti di cronaca, per quanto l’attualità – l’anima sfacciata della contemporaneità – è sempre presente negli studi di psicoterapia così come nella mente del terapeuta e del paziente. Aggiungo, non ho esperienze da raccontare legate a lavori con minori autori di reato, eppure qualche riflessione si può fare.

Sulla vicenda, non solo non so dire nulla, ma – e questo è importante sottolinearlo nell’era dell’onnipresenza di giudizio sugli eventi – non si può dire nulla, a meno che non si sia fatto un lavoro di conoscenza ed esplorazione diretta con questa persona e del contesto in cui è cresciuta. Potranno dire qualcosa i colleghi e le colleghe che lavoreranno con lui in questi anni che lo attendono, e non potranno farlo da subito, avranno bisogno di tempo. Lo specifico perché c’è una pruriginosa urgenza dei professionisti e dei non professionisti di spiegare cosa porta all’omicidio un ragazzo che agli occhi di tutti sembrava “normale”.

Quando si dice che l’evento x viene dal nulla, si dice una cosa sempre falsa. Dal-nulla è il nome dato al luogo dal quale provengono le intenzioni inattese, l’incomprensibile che si fa azione.

Dal-nulla si accompagna spesso al concetto di raptus, in uso per la comprensione di azioni violente. Efferatezza dell’atto criminoso e follia sono spesso associate. Di tale associazione ne fanno uso – e forse abuso - anche gli avvocati per scongiurare l’imputabilità dei propri assistiti.

Credo che nella affannosa ricerca di senso nei confronti dell’incomprensibile – come si può arrivare a togliere la vita a qualcuno – risieda una parte della grande fortuna del true crime. Una caratteristica di questi contenuti è quella di tentare di spiegare  le azioni apparentemente più inspiegabili. Le spiegazioni che se ne ricavano mettono al riparo dall’identificazione con gli assassini. Loro hanno ucciso perché vittime di violenza, perché depressi, per derubare, per l’eredità, per una faida familiare, per gelosia e via discorrendo. Noi non lo faremmo mai. Come se tutte le vittime di violenza, i depressi, etc., si avventurassero entro vicende di tale rilevanza ed efferatezza. Nel mio lavoro di consulenza psicologica e psicoterapia, luogo di prossimità con l’incomprensibile, metto spesso in guardia me stessa e le persone con cui lavoro, dalla faciloneria dei perché. Ciò che puoi fare è raccogliere indizi, fare ipotesi, identificare condizioni, costruire mappe per orientarsi, ma le mappe non sono mai il territorio e alla domanda “perché”, cioè all’indagine sulle cause, non si può mai veramente dare risposta. Più onesto e realistico indagare il “come” degli eventi e tracciare nessi di senso.

Non sapere perché si faccia una certa cosa è un’esperienza piuttosto comune, anche se non sempre ce ne accorgiamo. Il più delle volte ci illudiamo di saperlo. Come smascherare l’illusione?

Due indizi:

  1. tutte le volte che si attribuisce fuori di sé le ragioni delle proprie azioni probabilmente non si sta capendo cosa succede;
  2. tutte le volte che ti senti sicuro di cosa succede probabilmente non stai capendo cosa succede.

È disarmante, lo so, ma soggettivazione (assumere su di sé) e dubbio sono alcune delle chiavi dell’approssimazione alla conoscenza. Parlo di approssimazione perché la conoscenza è sempre approssimativa, più procede, più cresce, più manifesta i suoi limiti.

Perché mi soffermo su questo.

L’atteggiamento dell’opinione pubblica e del mondo dei tecnici che dice la propria su eventi di questo tipo - ma direi qualunque fenomeno psicosociale, senza arrivare all’omicidio - è drammaticamente collusivo con l’incapacità di tollerare che le cose esistono anche se non le capiamo razionalmente. È proprio tale difficoltà che fa sì che si ricorra al “nulla” come espediente narrativo per parlare di certi avvenimenti.

Questo pluriomicidio è stato raccontato come “senza movente”, proveniente dal nulla per l’appunto. Mi sono interrogata su quali siano le condizioni che soddisfano la categoria movente. Un ragazzo che uccide la professoressa all’indomani di un brutto voto ha un movente? Il movente è quello che riesci a dire circa quel magma informe e impensabile che spinge ad una certa azione, il movente non è il senso di quella azione. Dunque, il ragazzo di Paderno Dugnano non sa dire perché lo ha fatto - quindi non c’è un movente – ma quello che è avvenuto ha un senso e un significato e sarà su quello che dovrà lavorare per sperare in un futuro.

Fare fuori i propri genitori è un’argomentazione piuttosto frequente nel lavoro con gli adolescenti: “se loro non ci fossero io sarei libera o libero di tornare quando voglio, amare chi mi pare, non studiare o studiare quello che preferisco, etc.”. I genitori che sono stati genitori di un bambino o di una bambina, anche loro dovranno fare un lavoro di lutto nei confronti del figlio piccolo e nei confronti dei genitori che sono stati sino ad allora. In altri termini, un compito evolutivo degli adolescenti è uccidere simbolicamente i propri genitori, separarsene per fondare una relazione diversa. Il compito dei genitori è farlo fare senza morirne psicologicamente. Spesso gli adolescenti che uccidono i propri genitori o che attentano alla loro vita raccontano di un senso di oppressione che immaginavano risolto con la morte dei propri cari. Come se qualcosa in questo processo andasse storto, come se non fosse possibile neanche pensare la separazione al punto tale che l’impensabile diventa azione, omicidio. Come se.

PrecedenteIstrione
SuccessivoIl buon vecchio sesso fa paura