Siamo nel 2007, a Wellington, in Ohio. Daniel Petric, un ragazzo di 17 anni che gioca nella squadra di rugby della sua città, ha un incidente sciistico e contrae un’infezione da streptococco. La prognosi è infausta: il ragazzo dovrà stare quasi un anno allettato, non potrà uscire di casa, né fare sport per un bel po’ di tempo.
Daniel decide di dedicarsi a una sua grande passione, i videogiochi. I suoi amici vanno a trovarlo a casa e gli parlano del titolo più venduto degli ultimi anni, Halo 3. Gliene parlato in modo così appassionato, che Daniel non riesce a smettere di pensare a quel videogame.
C’è però un problema. Suo padre è un ministro pentecostale e in famiglia vige una regola ferrea, fedele al credo religioso: non si può giocare a videogiochi violenti o ambientati in contesti di guerra. Halo 3 è uno sparatutto, che si svolge in un mondo fantascientifico e che prevede l’uso di armi.
Daniel comincia a ossessionarsi ancor prima che i suoi amici gli portino di nascosto il gioco. Daniel comincia a passare anche 12 ore davanti allo schermo del pc, fino a quando suo padre non lo scopre. Gli dà un ultimatum: “o smetti di giocare a Halo 3 o te ne vai via di casa”. Daniel sceglie la seconda opzione, si trasferisce da un suo amico, ma passa giornate intere davanti al videogame, così anche la famiglia dell’amico lo caccia di casa.
Daniel torna al nido, ma nel frattempo ha acquistato una copia del gioco, che suo padre scopre nuovamente, sequestrandola e mettendola sotto chiave in una cassetta di sicurezza in cui tiene anche una pistola.
Dopo lunghi litigi, una mattina Daniel si sveglia di buon umore. Dice ai suoi genitori che ha una sorpresa per loro e li invita a chiudere gli occhi. Daniel ha aperto in segreto la cassetta di sicurezza e ora sta puntando la pistola contro la nuca del padre. Daniel spara a suo padre, che finirà in coma per diverse settimane, pur salvandosi. Uccide sua madre con ben quattro colpi, di cui uno le trafigge il cuore.
Proprio in quel momento, arriva la sorella di Daniel. Il ragazzo scappa, ma prima di fuggire, prende la copia di Halo 3 che era nella cassetta di sicurezza.
Alla fine, Daniel sarà arrestato, prendendo un ergastolo.
La difesa punterà la sua strategia sull’incapacità di intendere e volere, determinata dalla dipendenza dal videogame e dalla condizione mentale alterata che l’infezione avrebbe causato. La strategia non funzionerà, ma in tutti gli States il dibattito sui videogiochi sarà così ampio, che persino la Microsoft sarà costretta a rilasciare dichiarazioni pubbliche.
Quando si parla di videogame, così come quando si parla di internet in generale e di social network nello specifico, persiste una fetta di opinione pubblica che opta per una visione apocalittica del mondo virtuale. È il mezzo in sé a causare danni, in particolare su soggetti fragili come bambini e adolescenti. La violenza rappresentata nei videogiochi sarebbe di per sé sufficiente a spiegare molte condizioni di disagio.
Anche nel nostro paese il tema appassiona e sconvolge. Leggiamo costantemente articoli su ragazzi che partecipano a challange pericolose, che spingono sino al suicidio, per poi scoprire che nella gran parte dei casi si trattava di fake news.
In questo tipo di narrazione, quello che spesso manca è il contesto. Nella storia di cronaca raccontata sopra, più che il videogioco in sé, sono più interessanti tre elementi. Prima di tutto Daniel ha vissuto un’esperienza traumatica: la rottura della gamba, l’infezione da streptococco, l’allettamento e l’isolamento forzato per quasi un anno, in una fase di vita, l’adolescenza, in cui la socialità e l’uso del corpo sono fattori molto rilevanti.
In secondo luogo, la cultura familiare specifica in cui Daniel viveva. Una cultura con una forte vocazione religiosa, punitiva e privativa, che portava spesso allo scontro i desideri di Daniel con i diktat del padre.
Infine, il fatto che Daniel avesse cominciato a ossessionarsi con il videogioco in questione prima di giocarci. La componente ossessiva, dunque, è precedente all’esposizione alla violenza contenuta nel gioco e racconta il mondo relazionale di Daniel, i suoi vissuti e le sue proiezioni e trasgressioni, nelle quali il videogame è il pretesto per la sfida contro il padre castrante.
Per approfondire l’argomento, farò la strada più lunga. In uno splendido libro di antropologia culturale, “Antropologia della violenza”, una raccolta di saggi sul significato della violenza nel mondo contemporaneo, è contenuto il saggio di Michael Taussig “Cultura del terrore, spazio della morte”.
L’autore introduce il concetto di vuoto epistemico per spiegare la violenza che i colonizzatori occidentali usarono contro la popolazione amazzonica degli Yanomami.
Quando s’insediarono nei nuovi territori, gli occidentali cominciarono a entrare in contatto con le storie e le leggende che gli stessi Yanomami avevano contribuito a diffondere sulle proprie pratiche sociali e rituali, ma che poi furono ampliate e mitizzate dagli stessi colonizzatori. Un mondo oscuro, reificato nell’immagine della giungla amazzonica, luogo impenetrabile, fuori controllo, nel quale tutto era possibile. Così si propagarono racconti di riti sacrificali e cannibalici praticati dagli indigeni, terribili linguaggi magici da cui gli occidentali erano terrorizzati. La foresta divenne “spazio della morte”, ma in un senso meno letterale di quanto possiamo pensare. Quei racconti erano invenzioni che si fecero valanga con la loro diffusione fra i colonizzatori, che non riuscivano a tollerare il vuoto di senso attribuito alla giungla, finendo per proiettarvi le immagini più truci e orripilanti che la loro cultura era in grado di produrre.
L’aspetto più interessante è che quelle stesse pratiche infernali che gli occidentali attribuivano agli Yanomami furono commesse dai primi contro gli indigeni, riportando all’ordine ciò che era vissuto come incomprensibile e ignoto, attraverso la violenza.
Partiamo da un presupposto, ogni generazione crea nuovi codici espressivi per distinguersi dalle generazioni precedenti, in un processo nel quale continuità e discontinuità con il passato si compenetrano in forme originali. È un meccanismo antico, basti pensare al mito della velocità e della tecnica futurista, che poi venne assimilato dal Fascismo, per emanciparsi dal mondo lento e rigido precedente.
Hans Loewald parlava di parricidio edipico per descrivere l’omicidio rituale delle regole paterne, per affermare l’identità e l’individuazione dei figli, prima di ricomporre i rapporti in forme adulte e con ruoli diversi.
Quando la nascita di nuovi codici diventa così netta come è avvenuto nel passaggio all’era di internet, educatori, genitori e istituzioni vivono una fase di vuoto epistemico, di assenza di strumenti interpretativi per comprendere i codici. Il vuoto allora è riempito, attraverso la proiezione di vissuti angoscianti, a cui si risponde con la violenza: impedire l’uso dei social network ai più giovani, sequestrare i videogame, controllare le attività dei figli, degli studenti, dei giovani cittadini.
Sfatiamo un mito: i videogiochi come espressione di isolamento sociale
Nel tragico fatto di cronaca, Daniel passava ore da solo davanti al videogioco. È questa l’immagine ancora in voga associata all’adolescente che gioca al pc o alla console.
Va però ricordato che Daniel era adolescente nel 2007 e che in 15 anni sono cambiate molte cose.
Oggi, la gran parte dei giovani gamer gioca online, ha una connessione veloce, usa strumenti molto sofisticati, come cuffie e microfoni specifici. Le possibilità di accesso agli altri giocatori in linea diretta sono infinite.
I nuovi gamer giocano in gruppo, creano squadre con altri giocatori, comunicano nel corso del gioco direttamente a voce, si organizzano in ruoli e organizzazioni complesse, definiscono strategie di gioco sofisticate e collaborative.
Spesso creano legami molto più stretti con partner di gioco che non hanno mai visto di persona e che vivono in altre regioni, rispetto a quelli scolastici, perché condividono non solo interessi, ma vere e proprie rappresentazioni ludiche collettive.
Se possiamo intravedere un punto controverso, semmai riguarda la tendenza dei nuovi gamer a utilizzare canali come Twitch per mostrarsi ad altri mentre stanno giocando, fomentando una fantasia narcisistica ed esibizionista che, tuttavia, è culturale e non generazionale. Non è, infatti, molto diverso da quello che i loro fratelli maggiori hanno cominciato a fare 15 anni fa pubblicando foto su Instagram o da quello che da una decina di anni fanno i loro padri e madri su Facebook. E’ dunque un fenomeno complesso, che parla più della cultura contemporanea, che di specifici settori generazionali.
I gamer più giovani danno vita a vere e proprie culture locali online, che meriterebbero una maggiore attenzione ed esplorazione nei loro risvolti positivi e collaborativi, più che la mera preoccupazione genitoriale.
Anche quando parliamo di dipendenza da videogiochi, trattandola alla stregua del consumo di droghe e alcol, dovremmo essere cauti. Il vissuto ossessivo è ben più complesso e racconta non solo il mondo interno dell’individuo, ma anche e soprattutto i significati relazionali condivisi nei propri contesti di appartenenza, spesso in quelli familiari o scolastici.
Prima ancora di preoccuparci, dovremmo adottare un’ottica esplorativa, che ci permetta di dare senso all’ignoto che non conosciamo, più che riportarlo all’ordine di regole note che appaiono sempre meno coerenti con i nuovi codici.