Siamo alla festa di compleanno di lui. Lui ha invitato gli amici e gli amici degli amici. Tra questi, con disinvoltura invita lei. Lei e lui hanno avuto una storia per circa un anno. È finita senza finire, abbandonandosi all’opacità del vorrei-nonvorrei-masevuoi. Lei spera che questo invito non sia solo l’invito ad un compleanno ma anche l’invito a riprovare. Teme però di rimanere delusa. Arriva alla festa con delle amiche, le serve supporto. Porta un regalo, bello, di quelli pensati, con un chiaro riferimento alla loro storia passata e magari futura. Lui è distratto, la saluta con superficialità, ripone il regalo ancora incartato insieme agli altri e se ne va.
Durante una seduta Ginevra mi racconterà di questo episodio e di come la porti a fare considerazioni tristi ma realistiche circa il futuro di questo rapporto. “Tristi e realistiche”, penso. Quel ma messo lì in mezzo sta a testimoniare un grande equivoco culturale cioè che la tristezza avversi qualunque forma di soddisfazione nella realtà. Differentemente, credo che quel sentimento malinconico legato al ridimensionamento delle proprie fantasie in relazione alla realtà sia proprio la misura del senso di soddisfazione.
Torniamo alla seduta. Lei ci tiene a dirmi – e rassicurarsi attraverso il dirmi - che alla fine lui non si è accorto di nulla, né del suo coinvolgimento, né della speranza riposta nella serata; anche le amiche supporter le confermano che può stare tranquilla: “non si vedeva che sei innamorata.”
Lo scambio è avvenuto tra donne di circa quarant’anni e mi ha riportato alla mente una challenge virale su Tik-Tok e l’annessa indignata reazione: si tratta della Hot Girl Summer Challenge. La challenge è stata inventata da donne per donne. Le interlocutrici sono per lo più giovanissime, spesso under 25 e consiste più o meno in una cosa di questo tipo: ragazze si sfidano. Lo fanno attraverso condotte che portano all’assegnazione o alla sottrazione di punti in base all’assunzione di comportamenti più o meno intraprendenti da un punto di vista sessuale, più o meno liberi nell’uso di sostanze e alcool, più o meno indifferenti all’emozionalità del ragazzo circuito.
Un assaggio: - 7 punti se piangi per un ragazzo, - 15 se ti innamori, -30 se baci un ragazzo già baciato in passato, + 15 se baci tre ragazzi in una sera, + 30 il sesso, segue una lunga lista di pratiche sessuali mutuate dall’immaginario della pornografia commerciale.
Le challenge sono delle sfide. Le persone coinvolte, più frequentemente adolescenti, sono chiamate a svolgere delle attività per mettere alla prova la propria forza, capacità, resistenza fisica e coraggio, e renderle pubbliche tramite video condivisi nei social. Le adolescenti coinvolte nella challenge, così come Ginevra e le amiche, non trovano socialmente premiante esprimere un coinvolgimento emotivo nella relazione con un uomo. Ma quali sono le abilità testate? Qual è il territorio su cui ci si sfida?
Mi sono risposta così, senza alcuna pretesa di esaustività e consapevole di cogliere solo uno dei tanti fili che tessono la tela: si sfidano sul genere, o meglio sulla propria capacità di performare il genere. La parola performance in effetti mi consente di tenere insieme entrambe le componenti simboliche contenute nell’etimologia della voce challenge: competizione e finzione, inganno (dal fr. antico chalenge al lat. calumnia ‘calunniare’).
Qui mi viene in aiuto Judith Butler, filosofa statunitense post-strutturalista, che definisce il genere un atto (di uno spettacolo teatrale) dove la sceneggiatura sopravvive agli attori che ne fanno uso, ma è priva di vita finché non viene messa in scena”. Il costrutto di genere non è stato frequentato con costanza dalla psicologia o forse non con sufficiente efficacia. La letteratura più accreditata sul tema, infatti, risiede in altri perimetri culturali. Eppure, ognuno di noi si confronta con l’identificazione in un genere o in nessun genere o in ambo i generi e tale processo di identificazione è di natura squisitamente psicologica: si tratta del processo costitutivo del senso di sé nel mondo, quella cosa che ci consente di rispondere alla domanda “chi sono?”.
La proposta di Butler ci permette di pensare l’identità – quell’aspetto dell’identità legato all’identificazione nel genere – non solo come descritta dalle azioni ma costituita dalle azioni. È in tal senso che Ginevra, così come le giovani colleghe della challenge, performano il genere.
C’è da dire che il contesto di questa performance si colloca nello scenario simbolico delle relazioni eterosessuali di donne con uomini, indicando così genere costruito in riferimento allo scenario della sessualità eteronormata.
La sessualità esplicita ostentata nella challenge ha dei connotati molto differenti dalla vulnerabilità sessuale alla quale sono state educate generazioni di donne prima di noi.
La scrittrice e giornalista Naomi Wolf ne Il mito della bellezza - edito in Italia la prima volta nel 1991 – ci accompagna a spasso nella storia per comprendere questa apparente contraddizione.
Negli anni Sessanta, la cultura popolare proponeva l’amore come slogan, con tutte le sue espressioni sessuali: la sensualità, la frivolezza, la giocosità, la non violenza, senza vergogna né colpa. Gli uomini si facevano crescere i capelli e si dipingevano il viso, appropriandosi della libertà di esplorare l’immaginario sessuale tradizionalmente associato al femminile proprio perché le donne non pensavano alla propria libertà sessuale. Fino a quegli anni, la cultura pornografica era fatta da uomini per uomini e le donne la incontravano tangenzialmente e colpevolmente, lanciando un’occhiata alle copertine delle riviste esposte nelle edicole. Gli anni Settanta hanno sospinto le donne in posizioni di potere – più di prima meno di adesso – e a questo sembra avere corrisposto una stigmatizzazione profonda di quella cultura della sessualità e della sensualità del decennio precedente. Continua Wolf: “nel decennio in cui le donne si sono politicizzate sulla propria femminilità, la cultura ha bollato come una cosa noiosa il sesso tenero e intimo. L’anonimato è diventato l’afrodisiaco del momento. Se le donne dovevano avere la libertà sessuale e una parte di potere, facevano meglio a imparare a scopare come gli uomini.”
Scopare come gli uomini, lavorare come gli uomini, tessere relazioni sociali come gli uomini. Sembra che, in un sensato e prezioso processo di ribellione dalla posizione di subalternità culturale, emotiva, economica, occupazionale, sessuale, si sia proceduto con la rabbiosa sottrazione del potere all’altro, piuttosto che con la radicale messa in discussione delle dinamiche di potere.
Le giovani donne della challenge, e con loro Ginevra, hanno un problema che cercano di risolvere attraverso l’uso della forza: in un caso la forza della seduttività, nell’altro la forza dell’indipendenza affettiva, nel senso più problematico del dichiarare di non avere bisogno di niente e di nessuno.
Poiché una società scevra da dinamiche di potere non esiste – la stessa sessualità trasuda potere anche nelle più libere relazioni amorose – di quale potere ci possiamo fidare?
Ci si può fidare di un potere esercitato in funzione della condivisione del senso e del valore di quell’esercizio. Questo è un potere che non evoca paura nell’altro. La paura nelle relazioni è una misura dell’esercizio di un potere problematico, cieco e sordo alla relazione e fondato sulle proprie, individuali e idiosincratiche equazioni emozionali.
“Aver paura
D'innamorarsi troppo
Non disarmarsi
Per non sciupare tutto”
Lo cantava anche Lucio Battisti, con poche parole e molta efficacia.