Easy trip. Potranno gli allucinogeni salvarci (di nuovo)?

Easy trip. Potranno gli allucinogeni salvarci (di nuovo)?

Quante volte abbiamo pensato prima di una vacanza: “non vedo l’ora di partire così potrò riposarmi/rigenerarmi/divertirmi?”. L’idea che la sospensione delle attività lavorative ed il trasferimento temporaneo in luoghi esotici o comunque diversi da quelli quotidiani possa di per sé ripristinare le nostre energie, tuttavia, il più delle volte è destinata a fallire. Così, spesso la vacanza diventa fonte di stress, torniamo più stanchi e inquieti di quando eravamo partiti, con l’angoscia di dover ricominciare senza esserci ritemprati.

Perché avviene tutto ciò? A pensarci bene, abbiamo affidato la gestione di un vissuto ad un fattore esterno. Il riposo ed il divertimento sono esperienze psichiche, rispetto a cui il corpo c’entra senz’altro, ma che non possono essere scisse da sé e delegate a fattori esterni da noi.

In fondo il potere taumaturgico con cui connotiamo la vacanza non è molto diverso da quello che i pazienti, all’inizio dell’analisi, attribuiscono al terapeuta. “Dottore, mi tolga l’ansia” è una delle richieste più frequenti. Il lavoro terapeutico comincia allora dalla possibilità di riportare la fantasia di trasformazione magica su un piano relazionale e restituire all’ansia il suo statuto di vissuto emozionale da interrogare, pensare e condividere sul piano verbale nel lavoro terapeutico. Un processo più o meno lungo, ma certamente irto e faticoso.  

In questi giorni stiamo proponendo un parallelismo fra il viaggio come esperienza trasformativa e l’intervento psicologico. Entrambi i percorsi possono essere vissuti con attesa messianica, ovvero come processi impegnativi ma indispensabili per il cambiamento.

Le stesse discipline psicologiche hanno sin dagli esordi ricercato la panacea che avrebbe risolto tutti i disturbi mentali. Freud usò la cocaina a scopi terapeutici, la psichiatria da decenni sta tentando di perfezionare la conoscenza della composizione chimica del cervello per intervenire con farmaci via via più specifici e sofisticati. Eppure proprio dalla ricerca psichiatrica arrivano grandi delusioni. Ancora è lontana una teoria farmacologica onnicomprensiva e se si sono ottenuti buoni risultati nell’uso degli ansiolitici, l’efficacia di antidepressivi ed antipsicotici è ancora molto ridotta.

Negli ultimi decenni sta tornando in auge la riflessione sull’uso degli allucinogeni nel trattamento dei disturbi mentali. Si parla non a caso di Rinascimento Psichedelico. L’assunzione degli allucinogeni (funghi, LSD, etc.) è stata, infatti, sottratta dal campo degli esperimenti pionieristici, ma tutto sommato improvvisati, dei vari Huxley e Leary, per essere ricondotta alle regole stringenti del metodo scientifico e della ricerca medica.  

Le nuove tecniche di brain imaging, infatti, permettono di comprendere meglio quanto una sostanza agisca a livello neuronale, quali sono le zone cerebrali coinvolte e come esse si modifichino. L’uso di allucinogeni a scopo terapeutico, ovviamente sotto osservazione di professionisti, sembra avere efficacia soprattutto nei casi di depressione. 

Non ci interessa qui indagare l’effettivo sviluppo di questo campo d’indagine, né tantomeno sostenere l’inefficacia della farmacologia nel trattamento del disagio psichico. Avere farmaci che alleviano i sintomi, se non addirittura che riducono la frequenza di comportamenti dannosi per la persona, è certamente utilissimo. 

Ciò che però si nota è un ritorno ad un modello di lettura del funzionamento psichico di tipo scientista. La mente è nuovamente ridotta al substrato biologico (il cervello). Con il proliferare dei farmaci e con lo sviluppo delle neuroscienze, il piano simbolico, verbale e metaforico dell’intervento psicologico sembra sempre più relegato sullo sfondo e ciò potrebbe rappresentare una perdita importante. Il rischio maggiore è tornare a guardare al farmaco come alla vacanza descritta all’inizio di questo articolo.

Per approfondire meglio il tema, torna utile rivolgersi alla letteratura, in questo caso ad Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, tanto caro sia agli psichedelici (che videro nel viaggio di Alice una metafora dell’LSD), sia alla psichiatria (che teorizzò una specifica sindrome, la AIWS - Alice in Wonderland Syndrome).
Il viaggio di Alice è stato anche descritto come metafora dell’inconscio. Il mondo bizzarro attraversato da Alice, infatti, è popolato da creature che non hanno evoluzione. Tutto si ripete ciclicamente senza logica, senza crescita, in una reiterazione continua.
“E’ sempre l’ora del té” è la perfetta rappresentazione dell’assenza di tempo tipica del pensiero inconscio ed in sostanza del funzionamento nevrotico. Soltanto l’incontro con Alice cambierà i personaggi, dunque l’incontro con l’altro all’interno della relazione che instaurano.

La scena del té come rituale magico mi ha ricordato l’uso che mio nonno faceva dei farmaci per curare il diabete. Mio nonno era in grado di mangiare 3 etti di pasta ed un intero cabaret di dolci in una sola volta. Quando il dottore gli prescrisse le iniezioni di insulina, continuò a mangiare come prima. Nella sua mente il farmaco avrebbe risolto tutto e lui non avrebbe dovuto cambiare il proprio stile di vita. Avrebbe potuto continuare all’infinito a prendere il té, parafrasando Alice. Naturalmente morì in pochi anni.

Il motivo per cui la nuova fiducia verso gli allucinogeni o i nuovi farmaci cela molte insidie è che preannunciano un futuro di scoperte scientifiche liberatrici. Come negli anni ‘70 si pensava che la psichedelia avrebbe liberato l’uomo dalle catene dell’oppressione sociale, oggi si ritiene che possa liberarlo dalle malattie mentali.
La tentazione di delegare tutto al farmaco è però sempre in agguato. Senza ricondurre gli effetti della sostanza alla relazione terapeutica ed al senso che il cambiamento assume nella propria vita, senza cioè riportare la fisiologia all’ermeneutica, il rischio è reiterare all’infinito l’illusione di una salvezza posticcia, facile e indolore. In un’espressione, un delirio d’onnipotenza. 

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