Nel 2014 uscì la prima stagione di Gomorra, la trasposizione in serial televisivo del romanzo di Roberto Saviano. La prima stagione fu anche la sola che riuscii a guardare con un iniziale trasporto, che gradualmente scemò fino a perdersi alla sua conclusione. Non andai oltre, accompagnato da una sensazione di noia, che mi colpì, dal momento che la serie divenne un successo nazionale e che in poco tempo si trasformò in un fenomeno di costume.
L’emozione della noia è strettamente legata a quella dell’angoscia. Forse in modo troppo semplificato, si potrebbe dire che è il suo corrispettivo distanziante e difensivo. La noia maschera le emozioni perturbanti in una quiete apparente, che però cela insofferenza. E’ un indizio di turbamento interiore.
Quando Saviano decise di passare al piccolo schermo, fece una scelta radicale. Voleva raccontare la Camorra di Scampia dall’interno del sistema di valori criminale. Questo comportava principalmente due aspetti:
- nessuno dei protagonisti fa parte delle forze dell’ordine, che sono quasi assenti per tutta la serie; questo perché nella mentalità camorristica le “guardie” non valgono nulla, sono solo ostacoli verso i propri obiettivi, con i quali convivere nel modo più funzionale possibile per gli affari.
- sono completamente assenti figure positive con le quali identificarsi. Saviano, oltre che un grande scrittore, è esperto semiologo. Conosce bene il processo di identificazione che porta il lettore ad entrare nella narrazione. Eliminando qualsiasi riferimento che dia speranza allo spettatore, quest’ultimo è costretto ad identificarsi con la logica camorrista: il familismo, il tradimento, lo sprezzo per la morte, messa in conto da chiunque appartenga a quel mondo. Da qui la mitopoiesi del criminale, che inevitabilmente finisce per essere romanticizzato, ma a quale prezzo? Non è possibile affezionarsi a nessun personaggio, perché prima o poi farà la stessa fine degli altri.
Il medium cinematografico è un potente strumento di manipolazione emozionale dello spettatore. Vi faccio un breve esempio. Chiunque abbia visto Dogville di Lars von Trier saprà di cosa sto parlando. I continui soprusi subiti dalla forestiera Nicole Kidman nello spazio astratto disegnato sul set che rappresenterebbe una tipica provincia americana, portano lo spettatore a provare un disgusto crescente. La scena finale di violenza punitiva e feroce è una catarsi purificatrice, che però è totalmente mossa dall’odio.
Una volta che lo spettatore ha provato il desiderio di violenza e annientamento a fronte di un disgusto prolungato e intollerabile, von Trier, nei titoli di coda, rivela il suo vero intento. Mentre scorrono sullo sfondo i volti “sporchi, brutti e cattivi” della provincia americana, il disprezzo per la miseria morale di quel mondo diventa repulsione estetica. Von Trier ha sapientemente manipolato le emozioni dello spettatore per proporre la sua morale. Lo spettatore se ne rende conto e si sente violentato, come accade alla Kidman per tutto il film.
Saviano e von Trier non sono stati i primi a proporre una narrativa senza speranza, nella quale l’unica identificazione possibile è con il male. In letteratura, autori come Bret Easton Ellis o Chuck Palahniuk, in diverse opere hanno raccontato contesti e personaggi senza alcuna possibilità di redenzione. Un altro grande scrittore americano, Foster Wallace, riteneva questi romanzi immorali e velleitari. Per Wallace la letteratura, così come il cinema, hanno una funzione morale. Si potrebbe dire che il loro scopo è educativo, il lettore deve uscire dal romanzo cambiato e per questo i protagonisti stessi devono evolvere. Anche nelle storie più macabre, deve esserci una figura che incarni la morale, qualcuno con cui identificarsi e provare un senso di speranza.
Mare Fuori, a differenza di Gomorra, sceglie questa seconda strada nel raccontare la terribile realtà della camorra. Non è un caso che i protagonisti siano adolescenti. L’adolescenza è la fase della crescita in cui si costruisce l’identità individuale, si definisce l’appartenenza al gruppo e si sviluppa il pensiero morale. La serie esplicita sin dai primi episodi il filo conduttore che accompagna le storie dei personaggi: il conflitto fra un sistema familistico obbligante (non solo quello camorristico, ma anche quello rom o quello dell’alta borghesia), incentrato sulla vendetta, sull’omertà e sul possesso dei propri membri, e la libertà di scelta individuale.
I due protagonisti maschili della serie incarnano la complessità di tale conflitto. Filippo, figlio dell’alta borghesia milanese, finisce nel carcere minorile dopo una vacanza a Napoli, finita con un tragico gioco che porta alla morte di un suo amico. Carmine, figlio della camorra, vuole a tutti i costi uscire dal contesto mafioso, ma si ritrova a commettere un omicidio davanti al tentativo di stupro della sua ragazza, dalla quale aspetta una figlia.
Filippo cambierà nel rapporto con un mondo violento cui non era abituato; anche Carmine evolverà, devastato dal suo conflitto interiore (e non solo) giocato sull’asse dell’appartenenza coatta alla famiglia, da un lato, e la scelta individuale, dall’altro. All’interno del carcere c’è un mondo di vite che non sono mai definitive. Anche il personaggio più feroce, alle spalle ha un passato traumatico. Anche il personaggio più buono è in grado di fare del male a sé stesso e agli altri. Complessità vs. Fatalità, questa è a mio avviso la sfida che Mare Fuori pone a Gomorra. Se in Gomorra nessuno può salvarsi, in Mare Fuori nessuno nasce salvo, ma può redimersi. Tutto dipende da chi scegliamo di essere.