Antisociale

Antisociale

“Sono un tipo antisociale, non m'importa mai di niente
Non m'importa dei giudizi della gente”
Francesco Guccini, Il sociale e l’antisociale

Michele è un uomo di 35 anni, che è stato inserito in un percorso terapeutico di gruppo rivolto a uomini maltrattanti. Ha ricevuto recentemente una condanna per aver picchiato sua moglie ripetutamente, sotto l’effetto di alcol, e il giudice lo ha obbligato agli arresti domiciliari e a frequentare il percorso terapeutico per poter scontare la pena.
Il suo accesso al gruppo terapeutico è dunque “spintaneo”, un neologismo molto in voga fra gli operatori che si occupano di violenza domestica.
Michele non ha scelto liberamente di intraprendere un percorso psicologico, ma è stato spinto dalle istituzioni, motivo per il quale la sua partecipazione è molto difficoltosa. Michele non vuole stare nel gruppo, non ne comprende il senso e ne attacca costantemente il setting, non rispettando quasi mai il suo turno per parlare, aggredendo verbalmente gli altri partecipanti o arrivando in ritardo.
Michele, nonostante metta costantemente a rischio le sue possibilità di scontare la pena nei tempi stabiliti, ritiene di essere nel giusto. Manifesta un disprezzo evidente verso i terapeuti e gli altri membri del gruppo e non è disposto ad ammettere la brutalità delle sue azioni verso la moglie, ritenuta colpevole di “essersela cercata” perché la donna è molto lamentosa, svogliata, poco attenta ai suoi bisogni di marito.
Gli occhi di Michele si illuminano solo quando può parlare della sua passione più grande, il gioco d’azzardo. Ama giocare a poker, ma la sua passione segreta è la roulette, perché la vincita non deriva dall’applicazione di tecniche di gioco, quanto dall’intervento magico del destino che gli dà ogni volta il brivido della vincita.
Michele è restio nel parlare della sua famiglia d’origine. Il padre lo picchiava sin dall’età di 5 anni e sembrava non essere in grado di mostrargli affetto.
Una scena, però, Michele la ricorda bene. I pomeriggi passati con suo padre imbottigliati nel traffico di Roma. Il padre educava Michele a sopravvivere nel traffico, rendendolo partecipe di tutte le infrazioni e i trucchi del mestiere che, a suo avviso, erano necessari per non farsi “mettere i piedi in testa” dagli altri guidatori.
Il padre di Michele urlava spesso alla guida, ma la sua rabbia era rivolta soprattutto alle figure che rappresentavano l’autorità: vigili urbani o poliziotti, che incarnavano il male assoluto della società, arbitri dei destini di coloro che devono confrontarsi con la vita vera con i pochi mezzi a disposizione. Nel vissuto di Michele, il giudice che lo ha condannato è descritto come il padre descriveva la polizia stradale: persone assetate di potere, un potere dispotico, insensato, sopraffacente, contro il quale ci si può e deve opporre esclusivamente con la legge della strada o della giungla, cioè l’assenza di regole o la loro infrazione per non soccombere.

Se adottassimo il linguaggio e la prospettiva della psichiatria, diremmo che Michele ha un disturbo antisociale di personalità. Come per la gran parte dei disturbi psichiatrici, l’elenco dei sintomi viene spiegato come frutto dell’interazione di fattori genetici e fattori ambientali, che influenzano la crescita del soggetto portatore del sintomo.

Una tesi, quella genetica, molto controversa, con poche certezze scientifiche, che viene messa accanto a quella ambientale ormai più per consuetudine che per effettivo riscontro sul piano eziopatogenetico. 

Prendiamo, ad esempio, uno dei contenuti utilizzati nella descrizione del disturbo:
Il disturbo antisociale di personalità è più frequente tra i parenti di primo grado dei pazienti rispetto alla popolazione generale. Il rischio di sviluppare questa malattia è aumentato sia nei figli adottivi che in quelli biologici di genitori con il disturbo.

La correlazione fra il genitore che presenta il disturbo e il figlio viene descritta a partire da presunti fattori genetico-ereditari. Eppure, la notazione sulla presenza dei sintomi anche in figli adottivi, ci fa comprendere quanto, se di trasmissione ereditaria possiamo parlare, essa fa riferimento alle forme relazionali che genitori e figli condividono e che hanno influenzato il vissuto e le emozioni del singolo. 

Anche quando leggiamo:
Un meccanismo possibile è l'aggressione impulsiva piuttosto che pianificata, relativa al funzionamento anomalo del trasportatore di serotonina.

Dobbiamo ricordare che le informazioni che vengono raccolte sui neurotrasmettitori serotoninergici sono sempre desunte post-hoc.
Lo “squilibrio chimico”, anche quando riscontrato, più che fare riferimento a presunte predisposizioni genetiche, racconta la storia di come il cervello si sia sviluppato entro un determinato ambiente. In un ambiente traumatico, lo squilibrio chimico sarà una conseguenza e non una causa del comportamento disfunzionale. 

Non mi dilungo, tuttavia, sulle ipotesi psichiatriche, ma cercherò di approfondire il senso emozionale della storia di Michele.

In primo luogo, gli studi sugli autori di violenza evidenziano che ci sono due vissuti tipici fra gli uomini maltrattanti: la recriminazione e la vittimizzazione.
L’agito violento e aggressivo non è mai assunto come scelta individuale, quanto come atto obbligato, provocato dall’altro, che costringe il soggetto a usare violenza per le sue colpe, le sue lamentele, le sue mancanze.

E’ importante sottolineare questo tipo di vissuto, perché nella storia di Michele l’emozione di essere vittima dell’altro, di doversi opporre a un nemico opprimente che lo costringe a ribellarsi, difendersi attraverso l’infrazione delle regole e l’aggressione dell’altro, è precedente agli abusi perpetrati verso la moglie.
E’ dunque frutto di una dinamica emozionale che Michele ha creato e condiviso con suo padre, entro un rapporto educativo nel quale gli unici momenti di sintonia con la figura paterna erano possibili se l’aggressività era rivolta verso un nemico esterno, in particolar modo un’autorità obbligante. La stessa autorità violenta che poi il padre a casa riversava su Michele tramite il maltrattamento.

In secondo luogo, quando si parla di comportamento antisociale si fa riferimento a concetti quali impulsività o disturbo del controllo. Si parla cioè di agiti, che sono l’esito di come la persona rappresenta emozionalmente il contesto. Da soli, gli agiti non dicono nulla del funzionamento psichico della persona, tantomeno delle origini del comportamento.

In tal senso, è molto più utile recuperare la neo-emozione della provocazione, come è stata teorizzata da Renzo Carli e Rosa Maria Paniccia.

Colui che provoca rivolge la sua aggressività verso le regole esistenti, sostituendole con continue eccezioni alla regola. Nel vissuto del provocatore, la provocazione è una risposta e reazione all’essere stato provocato dall’altro (nel caso di Michele, la moglie con le sue lamentele ha provocato la sua violenza).

Nel vissuto provocatorio, la pretesa è quella di sostituire un sistema di convivenza fondato su regole condivise con un sistema di relazioni fondato su un conflitto istituito, perenne, che non ha alcun prodotto terzo, ma esclusivamente l’aggressione dell’uno sull’altro, la risposta difensiva, la recriminazione costante. 

Le relazioni fondate sulla provocazione, infatti, non si basano sulla definizione di regole e sulla discussione con l’altro, ma sull’esercizio del potere, entro lo schema amico-nemico.
Nel mondo interno di Michele, ma anche in quello relazionale condiviso con suo padre, la realtà esterna è una giungla, cioè un contesto anomico nel quale sopravvive solo chi è più furbo, chi sa aggredire per primo, chi trova il modo per infrangere le regole e non farsi scoprire.
I custodi della legge (giudici, poliziotti, vigili) sono odiati perché cercano di dare ordine al caos, definendo regole di convivenza che da Michele sono vissute come obblighi umilianti e coercitivi.

Tutti coloro che rispettano la legge sono disprezzati, perché si sottomettono al potere coercitivo, così come è percepito dal provocatore.
In tal senso, Michele si approccia al gruppo terapeutico reiterando il vissuto condiviso con il padre. I terapeuti sono una riproduzione del giudice che lo ha condannato, dei vigili contro i quali suo padre riversava tutta l’aggressività, mentre gli altri partecipanti sono le pedine del potere che si sottomettono, come sua moglie nel contesto familiare.

La neo-emozione della provocazione ci aiuta a comprendere anche la passione di Michele per la roulette. Mentre nel gioco del poker vigono regole tecniche e relazionali precise (tra cui il bluff, la capacità di memorizzare le carte, l’abilità a prevedere le mosse dell’altro), la roulette si fonda esclusivamente sulla dea Fortuna, cioè sul caos, lo stesso che secondo Michele governa il mondo. Un caos che può essere nemico se si perde, ma anche un amico gratificante quando si vince. Il potere è delegato completamente a una forza superiore, invisibile, che regola la vita umana, le azioni e i numeri.

Il lavoro psicologico con il vissuto provocatorio non è semplice, perché - nel caso di Michele - significherebbe mettere in discussione la relazione abusante con il padre, l’unico verso cui Michele si rifiuta di esprimere vissuti di rabbia, assumendo la posizione di vittima di un potere dispotico e violento, in una fase della sua vita nella quale la dipendenza dal padre e il bisogno di essere riconosciuto e accudito da lui erano molto potenti.

Dunque, più che limitarsi al lavoro di sviluppo della consapevolezza verso la violenza commessa, il gruppo terapeutico potrebbe diventare risorsa per Michele proprio facendo attenzione al modo in cui aggredisce il setting condiviso, le regole del gioco stabilite che organizzano il gruppo, rivelando così la provocazione di Michele ed esplorandone i significati emozionali. 

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