Il rischio della felicità: il caso di Atalanta-Valencia

Il rischio della felicità: il caso di Atalanta-Valencia

Non so bene perché ero lì, non sono mai stato un appassionato di calcio. Bergamo però non è molto abituata ad eventi di questa portata. Un terzo della città si è spostata a Milano per guardare la Dea giocare. L’Atalanta ha vinto 4-1, dicono tutti che abbiamo fatto la Storia, ed io ho passato tutta la sera a ripetere il nome di Hateboer, che ha segnato una doppietta, senza sapere nemmeno come si pronunciasse.
Alla fine della partita ci siamo abbracciati. Un signore che non avevo mai visto in vita mia mi ha sollevato da terra urlando cose che non posso ripetere. Ho dato più baci, strette di mano e pacche sulle spalle quella sera di quanti potrei darne in un intero anno.
Al pub abbiamo bevuto ed un tifoso del Valencia provava a dirmi qualcosa che io non capivo, non sembrava poi così triste. E’ impressionante come l’adrenalina e l’euforia collettiva siano in grado di contagiare tutti, di unire sconfitti e vincitori in un corpo unico. Lo spagnolo mi ha dato il suo bicchiere di birra ed io l’ho trangugiato come fosse un rito di pace, un calumet improvvisato.
Mentre eravamo in metro, stipati come api ma felici, pensavo a quando a casa avrei abbracciato mio padre, tifoso atalantino da che ho memoria. E ripenso spesso a quel momento, ora che è steso in un letto di ospedale, intubato, a lottare fra la vita e la morte.

Ho provato ad immaginare i pensieri di uno dei 45.000 tifosi che in massa si sono spostati da Bergamo a Milano per assistere, il 19 febbraio 2020, alla partita Atalanta-Valencia, valevole per gli ottavi di finale di Champions League.  Quel giorno ancora nessuno era consapevole di ciò che sarebbe accaduto poco tempo dopo. 

E' stata definita la "partita zero". Il rito di passione collettiva più rappresentativo della nostra epoca è diventato improvvisamente simbolo di malattia e di morte. Da Bergamo a Milano alla Spagna, i luoghi della partita sono stati colpiti pesantemente dal contagio.  

Da giorni, voci autorevoli cominciano a confermare che quella partita sia stata una possibile concausa della diffusione improvvisa dei contagi nel bergamasco e nel capoluogo lombardo. Lo stesso Borrelli, capo della Protezione Civile, ha ammesso che “potenzialmente è stato un detonatore, ma lo possiamo dire ora, con il senno di poi”. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, ha dichiarato in un’intervista rilasciata al quotidiano sportivo spagnolo Marca che “la partita era una bomba biologica. A quel tempo non sapevamo cosa stesse succedendo. Il primo paziente in Italia era il 23 febbraio. Se il virus era già in circolazione, i quarantamila fan che andarono allo stadio di San Siro erano infetti".

In molti indulgono al pensiero che la tragedia era inevitabile e che nessuno poteva prevederla. Ciò che però sappiamo è che gli assembramenti pubblici saranno proibiti per diverso tempo. Eventi sportivi, concerti, festival, momenti di condivisione collettiva in cui ci riconosciamo gli uni con gli altri nella passione e nella gioia, saranno per un bel po’ guardati con sospetto.
Non è la prima volta, in tempi recenti, che un momento di felicità collettiva diventa improvvisamente simbolo di dolore e di morte. Basti pensare al Bataclan o al concerto di Ariana Grande a Manchester. In quei casi, tuttavia, la paura poteva essere contenuta nell’identificazione di un nemico esterno, colpevole della sua violenza.

Cosa accade, invece, quando un momento di festa ed euforia collettiva diviene inconsapevolmente e subdolamente anticamera della tragedia, quando il pericolo passa attraverso gesti – baci, abbracci, strette di mano – che quotidianamente associamo all’amore, all’amicizia, ad emozioni positive?
Il vissuto di ambivalenza che lega la felicità alla morte può portare a reazioni differenti.

Nel Medioevo, durante la Peste Nera, il contagio era ritenuto un castigo divino, derivato dalla corruzione e dal peccato del consesso umano. Il movimento dei Flagellanti si spostava di città in città, ricordando ai cristiani, attraverso manifestazioni pubbliche di penitenza, che l’edonismo e l’eresia erano motivi sufficienti per meritare una punizione.

Oggi vediamo la diffusione delle prime attribuzioni di colpa. Non sono più un nemico esterno o il peccato ad essere sotto attacco, ma l’incoscienza. Colpevoli sono coloro che scelgono incoscientemente di assembrarsi, ma anche l’UEFA che, per profitto, non ha saputo prevedere per tempo il rischio di contagio nei campi di calcio e negli stadi. Ignorantia non excusat, parafrasando la massima latina.

Forse per diverso tempo sarà difficile vivere con la stessa leggerezza i momenti di gioia collettiva. Allora le parole del premier Conte “torneremo ad abbracciarci” non sono rivolte solo ai nostri affetti più intimi. Torneremo a riappropriarci delle piazze, degli stadi, delle arene, anche se ci vorrà del tempo. Un tempo che servirà a ricostruire fiducia e superare la colpa, assumendoci nuovamente il rischio della felicità.

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