Una conoscente mi contatta su Facebook chiedendomi quella che a tutti gli effetti sembra una diagnosi: “mi aiuti a capire se ho il disturbo borderline?”
Questa donna, un’infermiera di 40 anni, sa che sono uno psicologo. Mi chiede un metodo semplice per capire se il Borderline si sia impossessato di lei. “Non avresti qualche test veloce per sapere se ho sintomi del disturbo?”.
Le chiedo perché sia convinta di avere il disturbo borderline. Mi dice che da qualche tempo si sente in crisi, molto più stressata del solito e che non riesce più a “tenere sotto controllo” le emozioni che prova. Anche le altre persone le dicono che sembra diversa e la sua preoccupazione maggiore è che prima riusciva a rispondere con calma e misura alle parole degli altri, adesso sente che le sue reazioni sono molto più aggressive. Ha sentito dire, ha letto in un articolo, qualcuno le ha detto, che l’aggressività è uno dei sintomi principali delle persone borderline. Mi parla dunque di un prima e un dopo, di una crisi, e si domanda: “è possibile diventare improvvisamente borderline?”
Fino a pochi decenni fa, andare dallo psicologo era vissuto, almeno da una parte consistente della popolazione, con stigma e diffidenza. Una delle paure maggiori era essere tacciato di pazzia e ricevere una diagnosi psicologica, ma ancora di più psichiatrica, era motivo di enorme preoccupazione. La diagnosi, infatti, quasi mai era uno strumento di conoscenza all’interno della relazione fra medico e paziente o fra psicologo e cliente, quanto un’etichetta oscura, da tenere segreta a parenti e conoscenti, nel timore di essere allontanati, rifiutati, derisi o visti con sospetto dal contesto sociale. Nevrosi, psicosi, bipolare, schizofrenia, erano tutti termini tecnici, che evocavano un timore reverenziale, ma anche l’angoscia dell’occulto. Faceva paura come ricevere una diagnosi di carcinoma, ma con l’aggiunta che la patologia mentale fosse una colpa personale, un deficit privato, una malformazione del carattere, una tara al massimo ereditaria, se non proprio individuale.
È molto curioso che nello stesso periodo in cui la medicina sta vivendo una crisi profonda, che l’autorevolezza della diagnosi e del trattamento medico sia ai minimi storici, le categorie diagnostiche della psichiatria ricevano un consenso sociale così ampio. La stessa psicologia, che non si occupa di individui, di farmaci, di disturbi, di deficit cognitivi, ma di emozioni, di relazioni e del rapporto fra individuo e contesto, ha da tempo adottato la terminologia psichiatrica, contribuendo ampiamente a tale consenso.
Oggi, a partire dalle generazioni più giovani, l’attenzione al “benessere psicologico” è molto più diffusa che in passato. I servizi di psicologia online spopolano e in generale sempre più persone si rivolgono a uno psicologo o consigliano ad altri di andare dallo psicologo.
Buone notizie, dunque. Ma siamo sicuri che dietro questa richiesta di intervento psicologico non ci siano alcune insidie che - se non prese in considerazione dai professionisti - inficiano l’efficacia stessa di tali interventi?
Torniamo all’infermiera che mi ha contattato su Facebook. Anzitutto il contesto. Facebook può essere uno strumento di comunicazione, ma ha un suo lessico e soprattutto specifiche aspettative. È il contesto della comunicazione urgente, della fruizione di contenuti rapidi e superficiali, e anche gli scambi con l’altro sono informati da questa urgenza.
Come i servizi di psicologia online si stanno rapidamente trasformando nel delivery della consulenza psicologica, una sorta di Amazon che garantisce interventi rapidi ed efficienti, le richieste che arrivano agli psicologi su Facebook sono spesso una richiesta immediata di rassicurazione.
Cambia così il senso della diagnosi. Anche in questo caso, difficilmente è uno strumento di conoscenza tramite una relazione. Ricevere la patente del borderline, magari tramite un test veloce che puoi fare su internet, è una richiesta di dare senso a ciò che si prova, ma senza sforzo e senza implicazione. Esplorare i propri vissuti, i conflitti esperiti con il proprio contesto, è percepito sempre di più come un impegno faticoso, ambivalente, che richiede tempo e che lascia a lungo un senso di incertezza intollerabile. La richiesta di diagnosi rapide è la famosa “pezza” sul tubo che perde.
Quando ho detto all’infermiera che la sua domanda di diagnosi fosse interessante, perché esprimeva il suo desiderio di capire cosa stesse vivendo, che cosa significassero per lei il cambiamento e il senso di malessere, invitandola a contattare uno psicologo, la risposta mi ha fatto molto riflettere. “Non voglio andare in terapia un’altra volta. L’ultima volta ho interrotto con la mia psicologa, perché stavo male e andando da lei continuavo a stare male. Dopo 3 sedute mi sono chiesta se valesse la pena pagare per star male”.
La fatica di intraprendere un percorso di conoscenza, di approfondire la complessità dei propri vissuti, è rigettata tenacemente a vantaggio della richiesta di soluzioni immediate, che eliminino la sofferenza, con tutti i paradossi che ne conseguono.
Si accetta che per scolpire il proprio corpo in palestra sia necessaria la fatica, magari ci si sottopone a diete incentrate su privazione e assenza di godimento, ma il tanto esaltato benessere psicologico sembra più un silenziamento psicologico: dottore, mi dia una diagnosi e un farmaco che sopiscano il dolore.
L’intervento psicologico, però, non è una terapia del dolore. Non si occupa di rimuovere i sintomi, ma di dare senso ai vissuti. E anche la nostra infermiera, se badate bene, non ha parlato di sintomi, di comportamenti, di fatti. Ha parlato di vissuti e relazioni: sente di perdere il controllo delle emozioni; sente di essere più aggressiva; sente che gli altri percepiscono un cambiamento da parte sua.
Questi vissuti, più che parlare di un disturbo la cui diagnosi servirebbe solo a placare il senso di impotenza e preoccupazione per breve tempo, raccontano il modo in cui la persona vive il suo contesto, le sue emozioni e le sue relazioni.
Intervenire psicologicamente significa investire tempo e fatica per comprendere come vivere relazioni più funzionali con il proprio contesto, interiorizzando un metodo che sia utile oltre la stanza di analisi, che dunque superi la delega e la regressione richiesti dall’intervento medico.
Un percorso che non è facile, soprattutto nella cultura odierna, che chiede ricette semplici e uniformanti, che in fondo non sono poi così diverse dai rituali che un tempo - chi “non credeva nella psicologia” - chiedeva alla fattucchiera di turno.