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Perché, poi, non stiamo tutti andando a vivere in campagna?
Le città sono tossiche, le case sono asfittiche. Sì, ma non vogliamo davvero lasciarle.
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In un momento storico in cui di connessione e iperconnessione si parla soprattutto nella declinazione digital, con la necessità di riflettere sugli immaginari che vengono evocati intorno ai significati e le definizioni del sentirsi in contatto emotivo con gli altri, un interessante campo di indagine psicologica è anche quello legato alle scelte abitative.
Durante il lockdown abbiamo fatto esperienza dell’essere chiusi in casa, dove casa spesso ha significato un luogo asfittico, con pochi spazi per gestire i diversi momenti della vita quotidiana, il lavoro, i figli con la didattica a distanza, il tempo altro dal lavoro: spazi sovraffollati o vuoti fino all’inquietudine, cassa di risonanza delle città sommerse in un silenzio straniante.
Da molte parti, allora, si sono alzate riflessioni e proposte per rilanciare una versione dell’abitare più green, con spazi che non assomigliassero a carceri, ma che offrissero la possibilità di vivere a contatto con la natura, dove quanto meno il silenzio non evoca la sensazione del disastro.
Ne hanno parlato anche grandi architetti, con idee di recupero dei piccoli centri o delle realtà rurali di cui l’Italia abbonda.
E se ne parlava in videochiamata con gli amici, sognando orizzonti aperti dove respirare e camminare, fuori dal delirio psicotico della città.
Ci sorprende ora verificare che il mercato immobiliare non si sta muovendo in quella direzione? Che non ci sono i segnali immaginati e previsti di questo andamento?
Dove è finito quel desiderio di evasione e riconnessione con la natura?
Non possiamo evocare il dato di realtà della crisi economica, perché, tra l’altro, il mercato immobiliare sembra non aver risentito della incertezza legata alla pandemia. Qual è allora il freno, quale altro immaginario si è sovrapposto a quello dell’evasione verso gli spazi verdi? Credo che il movente affettivo sotto traccia sia, appunto, la connessione. Oltre a sperimentare la contrizione dentro le case, abbiamo vissuto l’angoscia di essere lontani dagli altri. Abbiamo sfiorato, attraversato, vissuto l’esperienza di una solitudine radicale. L’immaginario legato alla vita fuori dai centri urbani, se nella parte in luce racconta del piacere di vivere con ritmi, modalità e scenari più naturali, nella parte in ombra evoca uno spleen, una malinconia, una sottrazione della dimensione potentemente identitaria che è legata al vivere urbanizzato. La città, per chi ci vive e ci lavora, è il territorio degli affetti, dei ricordi, del riconoscimento del sé in relazione. Nella città incontriamo gli altri, nella città viviamo la nostra dimensione sociale, che è parte integrante e fondativa di ciò che sappiamo di noi e di ciò che sentiamo. E durante il lockdown abbiamo fatto un'esperienza profonda e involontaria, violenta per la sua radicalità, dell’essere esclusi dall’abitudine al nostro muoverci nel mondo. D’altra parte, nella gerarchia dei bisogni messa a punto dallo psicologo statunitense Abraham Maslow, i bisogni sociali, definiti di appartenenza, vengono subito dopo i bisogni fisiologici connessi alla sopravvivenza.
Possiamo allora immaginare che l’alternativa di vivere in luoghi poco urbanizzati, fuori dalla tossicità delle metropoli, sarà possibile quando potrà essere accompagnata da un immaginario popolato da connessioni emotive appaganti, da occasioni di relazioni, da proposte autentiche per sperimentarsi e riconoscersi anche nelle dimensioni affettive sociali.
Una nuova rete, da costruire.
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