Era il febbraio del 2018 e mi trovavo a Catania per motivi di lavoro. Sino ad allora non avevo mai sentito parlare della Festa di Sant’Agata e non avrei mai immaginato che mi sarei ritrovato in mezzo ad una fiumana di persone che si muoveva come un corpo unico.
Chi ha presente il “castell”, la torre umana celebrata in diverse città della Spagna, può comprendere sino a che punto i riti collettivi abbiano il potere di ricondurre la singolarità dei corpi al flusso indiscriminato della folla, come un formicaio brulicante.
Non a caso sia la Festa di Sant’Agata, sia i “castell” spagnoli sono stati proclamati dall’Unesco “patrimonio immateriale dell’umanità”.
Le strade di Catania erano talmente tanto gremite da non poter passare oltre. Non era possibile accelerare il passo, sgattaiolare o farsi largo. Ormai mi trovavo all’interno del rito, accerchiato dai devoti coperti dal saccu (il caratteristico saio bianco), intenti a trasportare le candelore (i lunghi ceri che si accendono durante la celebrazione), abbacinato dall’incredibile varietà di ori e pietre preziose che ricoprivano la statua della Santa, trasportata in spalla da centinaia di cittadini.
In quel momento mi resi conto che non stavo seguendo una mia personale andatura. L’incedere era dettato dalla processione ed io non ero più individuo, unico e separato. L’unica protagonista era Agata la martire e forse nemmeno lei. La vera protagonista era Catania stessa. Da romano non avevo mai assistito a nulla del genere, perché nella Capitale qualsiasi evento pubblico coinvolge solo una parte della città. A Catania non esistevano più un dentro ed un fuori: tutti erano in strada.
I riti collettivi fanno paura perché richiedono un’estrema capacità di mettersi da parte. Farsi da parte, ma anche farsi parte, con relativa perdita di confini e d’individualità a vantaggio della funzione. Nel rito è ciò che viene compiuto a contare e non chi lo compie.
Nella nostra epoca i riti collettivi sono sempre più scarsi. Quelli religiosi permangono in alcune parti del Sud Italia, quelli laici sono pressoché scomparsi. Forse gli unici momenti di condivisione collettiva li offre lo sport, il calcio e la Nazionale su tutti. La recente vittoria degli Europei da parte dell’Italia ha restituito qualche stralcio di questa partecipazione pubblica. Le strade e le piazze inondate dal tricolore, il suono delle trombette sino a notte inoltrata, le persone che si abbracciavano, scordando per un momento il distanziamento sociale ancora impellente a causa delle ultime varianti del Covid.
Eppure non sono mancate le critiche feroci da parte di coloro che nel calcio vedono solo un gioco - quante volte vi è capitato di leggere che si tratta solo di 22 tizi che corrono dietro ad un pallone? - e che sostengono che questa attenzione collettiva sia irritante.
A dirla tutta, è dalla nascita della società piccolo-borghese che la festa è stata svuotata non solo del valore sacrale della funzione religiosa, ma anche del significato di rito collegiale. Nel corso del tempo è divenuta il palcoscenico per il protagonismo tanto agognato dalle nuove classi emergenti, così avide d’individualismo e narcise fino al midollo.
Il genio di Nanni Moretti riuscì a cogliere in anticipo la tendenza per la quale la massima forma di presenzialismo è l’assenza:
“Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. No, non mi va, non vengo”.
La festa diventa così momento di celebrazione dell’individuo, che insofferente all’anonimato della folla, tenta di ergersi su di essa, anche a scapito del rito stesso. In un altro passaggio cinematografico fondamentale, Jep Gambardella dirà che il suo scopo non era quello di partecipare alle feste, ma quello di farle fallire.
Il culto del privato pervade talmente tanto la nostra epoca che, il giorno dopo la vittoria dell’Europeo, sui social network è stato un proliferare di selfie a sottolineare le occhiaie causate dall’insonnia forzata, di recriminazioni perché il chiasso dei festeggiamenti ha disturbato il sonno di chi il giorno dopo lavora.
Migliaia di persone arrabbiatissime rivendicavano il loro diritto a non farsi da parte (tantomeno a far parte del rito). Questa intolleranza per i festeggiamenti, ritenuti frivoli e immorali - secondo quel dogma per il quale l’unica etica è quella del lavoro - nasconde un narcisismo strisciante, una rivendicazione infantile del primato del singolo sugli altri.
C’è una sempre minore disponibilità a restare in penombra per celebrare passioni, sentimenti, valori e traguardi collettivi, senza trasformarli in occasioni per rivendicare la propria “sacrosanta” soggettività o nell’ennesima esaltazione del privato sulla condivisione sociale.
In fondo ogni selfie non era molto diverso da un fotogramma di Ecce bombo.
Mi si nota di più se festeggio in disparte o se non festeggio?