La voce del bambino

La voce del bambino

Sono seduto al tavolino di un bar di Prato della Valle, la piazza più grande di Padova, che si dice sia anche la più grande di Europa (in realtà non lo è, ma i miti servono a stimolare la fascinazione per ciò che raccontano e non sempre metterli in discussione è così gratificante). 

Sto facendo un aperitivo con un mio amico insegnante. E’ un uomo appassionato, molto affezionato ai suoi studenti. Mi racconta come ormai nella scuola tutta l’attenzione si concentri sui ragazzi e le ragazze che sono più problematici, mentre si tende a sottovalutare la “sofferenza dell’eccellente”: chi è bravo va da solo, ma nessuno si interroga sul serio su cosa significhi portare sulle spalle il peso del bravo studente, non visto e non attraente perché non patologizzato.

Eppure, anche coloro che sono identificati come problematici, come vengono visti dal contesto?
Il mio amico mi racconta di uno studente che è diventato un caso per l’intero corpo docenti. Il ragazzo fa una marea di assenze ed ora il grande dilemma è se bocciarlo o promuoverlo. In entrambi i casi, tuttavia, i docenti avvertono che sarebbe per loro una sconfitta, perché non vi sarebbe alcuna garanzia che ripetendo l’anno, oppure facendogli proseguire il percorso, qualcosa possa cambiare.

Cerco di andare più a fondo e chiedo chi sia questo ragazzo. Il padre è morto, la madre è completamente assorbita dal lavoro per mantenere la famiglia. Ha un solo amico, con cui condivide le assenze, ma per il resto non si è mai integrato con gli altri della classe. “Non è stupido” mi dice il mio amico “è intelligente. Le poche volte che sono riuscito ad interrogarlo è andato vicino alla sufficienza. Certo, i suoi compagni hanno la media dell’8, ma comunque è un buon traguardo per uno studente che non viene mai a scuola. Prima era nella sezione dei casi problematici, lo abbiamo spostato nella nuova sezione proprio per provare a stimolarlo, ma forse è troppo per lui”.

Comincio a pensare che anche io in questa situazione avrei cominciato a fare molte assenze. L’assenza non è mai una sedia vuota, ma ha un significato relazionale che racconta di come si sta in quel contesto e permette di pensare l’intera organizzazione della classe.

L’amico continua a raccontarmi di come queste continue assenze siano un problema, dal momento che dopo una certa quantità, la scuola è costretta a comunicare la situazione agli assistenti sociali. Non sanno come interrompere il ciclo.
Ho allora domandato al mio amico se qualcuno abbia mai chiesto al ragazzo perché faccia così tante assenze. Può sembrare scontato, ma in realtà nessuno lo ha mai fatto. Il mio amico mi guarda con un certo stupore e mi accorgo che in quel contesto si condivide un vissuto implicito di impossibilità di esplorazione. Il ragazzo comunica non presentandosi a scuola, gli insegnanti colludono non chiedendo al diretto interessato cosa lo porti a non frequentare. In tale contesto, la classe non è percepita come una risorsa per pensare a cosa vuol dire condividere quotidianamente tempo e attività. L’assenza non è colta come indizio per pensare al contesto organizzativo, ma come problema individuale da “risolvere in qualche modo”, senza tuttavia poter esplorare con l’altro cosa significhi.
Di quelle assenze se ne parla altrove, nei consigli di classe, con il dirigente scolastico, con gli assistenti sociali, ma non con il ragazzo, in una mutua esclusione in cui vissuti, esperienze e comportamenti sono taciuti perché non pensabili entro la relazione. Da qui nasce il senso di impotenza dei docenti, che avvertono come fallimentare qualsiasi decisione, perché non esplorata e condivisa con il diretto interessato.

Questa situazione non riguarda solo la scuola, spesso è comune anche all’interno delle famiglie. Maurizio Andolfi, probabilmente il più importante terapeuta familiare italiano ed uno dei massimi esperti a livello internazionale, da tempo propone una visione del bambino e dell’adolescente completamente ribaltata rispetto ai modelli di intervento più diffusi in terapia familiare.
Il bambino spesso è rappresentato come sintomo, cioè come espressione di un disagio individuale da etichettare e medicalizzare tramite interventi ortopedici. Pensate ad esempio al disturbo iperattivo. Il bambino è visto come individuo problematico che diventa “ingestibile” per la famiglia, così come per la scuola. L’iperattività è appunto un “iper”, un comportamento quantitativamente eccessivo, che va ridotto, riequilibrato, riportato alla norma ed alla calma. Non esprime, invece, un significato sul contesto, ad esempio sul tipo di relazioni e di vissuti condivisi nel contesto familiare.

Andolfi propone di sospendere questa proposta di trattamento e di pensare alla voce del bambino come rilevante nella comprensione dell’organizzazione familiare. Il bambino, da individuo privo di voce perché “troppo piccolo”, viene invitato a pensare e comunicare in quanto membro competente del contesto in cui sta crescendo, divenendo - come dice Andolfi - “guida e risorsa terapeutica” per accedere ai conflitti inter-genitoriali e multigenerazionali che riguardano tanto la coppia genitoriale, quanto il sistema familiare più ampio.
Restituire la voce al bambino, allora, è una buona metafora per spostarsi dal piano individuale e patologico, a quello relazionale e del vissuto condiviso, nell’idea che l’essere bambini non significhi non avere nulla da dire e tutto da ricevere, ma far parte in modo competente di contesti come la famiglia e la scuola, comunicando con loro oltre il proprio “disturbo” e offrendo prospettive per comprendere le relazioni all’interno del gruppo-classe, con i docenti e con i familiari. 

PrecedenteIl padrone nella testa
SuccessivoThe Wolf of Wall Street. Coazione a godere