Psicofarmaco sì, no, quando

Psicofarmaco sì, no, quando

Proverò qui a raccontare la frontiera sulla quale mi sto interrogando ultimamente. Non che non sia mai appartenuta all’orizzonte delle riflessioni che una psicologa e psicoterapeuta fa nel corso della propria vita formativa e professionale. È una questione onnipresente, eppure risolta con tale rapidità e sicurezza che lascia, almeno a me, molte domande.

Dunque, la questione: la relazione tra corpo e mente (natura e cultura, neurone e pensiero, psicoanalisi e neuroscienze ne sono sinonimi).

Nel panorama scientifico degli ultimi trent’anni le neuroscienze – complice le fortunate ricerche relative ai neuroni specchio e l’uso che di queste scoperte è stato fatto – hanno colonizzato (uso questa parola consapevole della coloritura suprematista) molti saperi, tra questi la psicoanalisi. Ai convegni di psicologia e psicoanalisi sono spesso presenti neuroscienziati, del contrario dubito fortemente.

A questa neuromania corrisponde altrettanta neurofobia: tutto dipende dal funzionamento neuronale, nulla dipende dal funzionamento neuronale. Quel che ho capito è che il problema risiede nel verbo “dipendere”.

Capirci qualcosa di questo complicato rapporto è un dovere di chi, come me, ha quotidianamente a che fare con persone che portano negli studi ragioni di sofferenza e che ti pensano, a torto o a ragione, come quello o quella che li farà stare meglio.

Sofia che non dorme da quando è nato suo figlio, dodici anni fa, Lila che ha smesso di mangiare e di uscire con gli amici intimorita dalla convivialità, Luca che cammina per strada contenendo le voci che gli dicono di fare male alle persone che incontra, Massimo che beve tutte le sere per potersi rilassare, Rino che si ritrova continuamente preda della rabbia e in conflitto con le persone al suo fianco, Silvia che non può andare a dormire se non legge la stessa pagina del libro sei volte altrimenti teme che non si risveglierà, Lucia che si è messa in malattia perché non sente che la vita abbia senso e alzarsi dal letto è una sfida troppo grande; Susanna che dopo la nascita della figlia ha smesso di allattare, di uscire di casa, di lavarsi.

In alcuni di questi casi ho fatto l’ipotesi che fosse utile un supporto psicofarmacologico, in altri no.

“Supporto farmacologico” vuol dire ipotizzare che una molecola, che interviene sul funzionamento neuronale, sia uno strumento utile per la persona che ho davanti.

Per contenere la totale arbitrarietà di queste valutazioni mi sono dovuta dotare di modelli, criteri e ipotesi. Senza questi, la decisione di offrire indicazione alla consulenza psicofarmacologica può assumere i caratteri dell’agito del terapeuta. Vorrei quindi raccontare di questi criteri citando una fonte.

Qual è il rapporto tra il neurone e il racconto che una persona fa di come sta?  I neuroni non parlano, non sentono, non pensano, non delirano, eppure senza neuroni non si danno parole, pensieri deliri. E qui già sto citando un breve e luminoso testo di riferimento. Parlo di Neurone Bugiardo dello psichiatra psicoanalista Walter Procaccio.

Il coinvolgimento dei neuroni è sempre presente, dal buongiorno del mattino al più fastidioso dei sintomi psicopatologici. Alloro quando è opportuno, utile, sensato fare ricorso a uno psicofarmaco?

Una premessa: quando il mio gatto sta male sono io a definirlo malato e sono io, alla luce di tale definizione, a portarlo da un veterinario. Se io non ci fossi, il gatto farebbe il gatto e quella cosa che chiamo malattia assumerebbe la forma di una semplice cosa che accade nel corso della vita da gatto.

Sempre citando Procaccio, “la malattia è come un temporale, un terremoto, come l’eruzione di un vulcano o di un geyser. O come la nascita di un fungo o il lampo di un raggio verde. Un accadimento (…) è il miglior equilibrio possibile e transitorio che la natura in perenne movimento ha trovato per una condizione data”. Il gatto, vicino alla natura, non si ammala, accade. Siamo noi che lo consideriamo malato. Come il gatto, i neonati, le persone con gravi disabilità e problemi di salute mentale. Anche in quei casi è qualcuno che stabilisce che loro siano malati. La domanda di intervento è di un terzo. Con tutti gli altri non funziona così, per poter accedere a delle cure sanitarie, anche a uno psicologo, dobbiamo raccontarci come bisognosi di quel tipo di intervento. Questo basterebbe per riscrivere il valore del racconto e della parola anche nell’ambito degli interventi fortemente organici.

Arriviamo alla questione che mi sono posta. Quando è opportuno, utile, sensato dare un’indicazione farmacologica.

Il rapporto tra il funzionamento dei neuroni e il vissuto di chi incontriamo (che arriva a noi nella forma delle parole) è circolare. Puoi muovere la leva somatica e otterrai cambiamenti sul piano della parola e delle emozioni, puoi intervenire sul piano dei vissuti e della parola e otterrai trasformazioni sul piano somatico. Su questo non mi dilungo, la storia del placebo è nota e sappiamo in modo accurato che il placebo corrisponde al potere trasformativo della relazione con chi prescrive il farmaco.

Chi manovra la leva dei vissuti e della parola deve dotarsi, come dicevamo, di un modello che sappia individuare le condizioni di opportunità circa un intervento che manovri la leva materica. Qui torno a citare Procaccio: “Per fare questo essi devono attrezzarsi a riconoscere i testi [1] tipici e a distinguerli dai testi unici perché più è alta la tipicità di un testo meno si tratta di un testo. Tipicità e unicità di un testo sono i due poli di un continuum lungo il quale scorre un cursore la cui posizione ci dice la libertà, la determinazione, l’intenzionalità di un segno”

Un esempio di testo tipico:

“Non posso non lavarmi le mani, dovunque io sia. Se non riesco a lavarmi le mani almeno ogni cinque minuti vado in ansia e smetto di fare qualsiasi cosa stia facendo un lavandino e un sapone. Ho tutte le mani screpolate. So che è una stupidaggine ma non posso non farlo”.

Questo è un testo tipico di quanto viene chiamato esperienza ossessiva: “non posso non farlo” ne rappresenta il paradigma. Ognuno di noi danza sul filo tra tipicità e unicità, sperimentando differenti dosi di automaticità e di libertà della propria esperienza.

Quando il racconto si fa tipico, ripetitivo, è un “plot narrativo quasi anonimo anche se interpretato da un individuo che forse nemmeno sa che sta recitando un testo scritto altrove e recitato più o meno analogamente da tanti.” È in questi casi che può essere utile il ricorso ad interventi di tipo farmacologico, proprio per l’interruzione di queste automaticità e la riappropriazione di quote di libertà e unicità della propria esperienza.



[1] Quando Procaccio scrive testo, per semplificazione si può intendere racconto verbale.

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