Nati stanchi

Nati stanchi

In una zona non troppo periferica di Roma c’è un bar che ha scelto come nome “Nati Stanchi”. Ogni volta che ci passo davanti mi sfugge un sorriso. Certamente l’ironia è palese ed allude ad una delle caratteristiche che - pregiudizialmente o meno - vengono attribuite alla romanità: più che la pigrizia, l’accidia, quella svogliatezza che non si esprime esclusivamente in ciò che si fa (o che non si vuole fare), ma che diventa vero e proprio paradigma dei rapporti sociali. Li orienta ironicamente verso la sospensione del tempo e della produttività, almeno nel senso in cui intendiamo ciò che significa essere produttivi in epoca contemporanea. Così i ritardi alla romana, la disposizione verso il cliente per cui “il caffé te lo faccio, perché lo devo fare, ma con calma”, che sono rappresentati collettivamente come assenza (della voglia di lavorare), raccontano qualcosa di più. La stanchezza è una proposta culturale: c’è dietro un invito alla sospensione di ciò che facciamo socialmente in modo automatico, non pensato.

Se fate una ricerca su Google, inserendo come keyword “stanchezza mentale”, troverete un florilegio di siti e blog che danno consigli su quali possano essere i rimedi più efficaci per combatterla. La stanchezza, l’affaticamento psicologico, infatti, sono visti come un nemico. Nemico di chi? Della produttività, ovviamente. Se sei stanco non sei performante e se non sei performante ciò rappresenta un deficit sociale: lavori male, ti ritiri socialmente, non curi sufficientemente il rapporto di coppia, i figli e via discorrendo.
Qualche sito propone di abbattere il nemico provando a conoscerlo, senza esplorarlo troppo: la stanchezza mentale è generata dallo stress, una categoria talmente generica che finiamo per capire poco di quello che stiamo vivendo.
Qualche avventuroso del web propone di andare un po’ più a fondo e si domanda se la stanchezza non sia dovuta piuttosto all’insoddisfazione personale. Qualcosa non va nel rapporto con sé stessi, c’è un non elaborato che richiede attenzione. In altre parole, la scarsa autostima personale conduce a non realizzare i propri desideri, o forse a non percepire nemmeno ciò che si desidera, portandoci a vivere una vita che non vogliamo e che per forza di cose ci stanca.
Se il merito è quantomeno aver provato a dare una spiegazione oltre il sintomo, il limite di questa proposta è che è pericolosamente figlia della stessa cultura individualista che sostiene la performance a tutti i costi, attribuendo alla stanchezza il significato di deficit: non sarà la mancanza di sonno, ma è comunque una mancanza, un difetto nel credere in sé stessi.

Circa una decina di anni fa, il filosofo Byung-Chul Han scrisse un testo interessante, La società della stanchezza, che propone una tesi più complessa per comprendere che ruolo rivestano le energie mentali nella nostra cultura.
Da tempo non viviamo più in quella che Michel Foucault chiamava la società disciplinare, nella quale l’uomo era obbligato entro confini ristretti legati al proprio ruolo sociale e la cui ambizione era liberarsi dalle restrizioni, per poi scontrarsi con i limiti delle possibiltà imposte dal contesto politico e sociale. Era un’epoca non troppo distante dal periodo in cui Carl Rogers propose il suo modello umanistico-esistenziale, nel quale al centro dell’intervento psicologico c’erano proprio i desideri di autorealizzazione dell’individuo, che spesso si confrontava con un ambiente esterno che reprimeva tali desideri.
La società odierna, per Han, non è più disciplinare, ma è una società della prestazione. Il passaggio chiave - culturale, sociale e personale - parte dal “niente è possibile” delle generazioni precedenti, al “niente è impossibile” di oggi. Il soggetto contemporaneo percepisce gradi di libertà molto più ampi rispetto al passato: il mantra del “puoi diventare ciò che vuoi” seduce l’individuo, che si sente svincolato dai limiti sociali, che d’altra parte continuano ad esistere, restando sullo sfondo. Utilizzando un termine gestaltico, ciò che è in primo piano è un elemento in più: il proprio desiderio. La necessità di mantenere alto il livello delle prestazioni si accompagna alla paura di non riuscire a sostenere tale livello e dal momento che “tutto dipende da te”, emerge un senso di inadeguatezza incolmabile, una mancanza personale appunto, che diventa paradossale e problematica. Non a caso, Han propone che anche il tipo di patologie odierne è completamente mutato. Da quelle batteriche e infettive di cui soffrivano le generazioni di 50 anni fa, le patologie odierne più diffuse sarebbero quelle psicologiche: depressione, deficit da attenzione e iperattività, ansia, sindrome da burnout. Se ci riflettiamo, sono tutte espressioni di improduttività, una risposta che rende la performance non all’altezza delle aspettative.

Siamo così passati dalla repressione del desiderio alla incapacità di stare al passo con desideri ipertrofici, impossibili da raggiungere, se non a discapito del nostro benessere psicofisico.
In questo senso, “nati stanchi” assume tutt’altro significato. La stanchezza, più che un semplice sintomo, è un’occasione per ripensare i nostri desideri automatici. Qual è il senso di quello che stiamo facendo, quali sono le emozioni che proviamo quando sentiamo di dover performare sempre e comunque?
La sospensione è sempre il preludio alla riflessione. Nella stanchezza possiamo trovare qualcosa di più della semplice assenza: il significato che attribuiamo al nostro percorso ed alle nostre relazioni.

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