Chi mastica un po ' di psicologia ha imparato che qualsiasi comportamento si dà in una relazione. Non solo possiamo rintracciare il movente profondo di un’azione dalla relazione psichica che abbiamo con un determinato oggetto interno (dalla propria madre in poi) ma, su un piano più prossimo ai comportamenti manifesti, è esperienza comune che un determinato atteggiamento di un soggetto viene mantenuto solo se, dall’altra parte, qualcuno è disposto a rispecchiarlo e, di conseguenza, a mantenerlo. Certo, quello che accade concretamente non è affatto semplice e questa equazione va guardata dall’alto.
Cosa succede quando la relazione, ad esempio, non è uno ad uno? Cosa succede quando è uno a molti? Potremmo, su questa traccia, interrogarci su cosa accade nelle dinamiche di potere. Quando cioè non è possibile rintracciare una relazione tra azione e reazione che riguarda due persone che sono in un rapporto volontario e diretto.
Dal punto di vista mediatico, abbiamo recentemente assistito ad uno sdoganamento del concetto di narcisismo dalle relazioni amorose alle relazioni di potere. Senza troppe sottigliezze e bypassando con furbizia altrettanto mediatica il veto professionale di attribuire diagnosi al di fuori dell’assetto clinico in cui le persone coinvolte interagiscono direttamente, il narcisismo maligno (cioè quella forma di narcisismo più incistata e meno curabile clinicamente) è il disturbo che è stato diagnosticato da più parti a Donald Trump.
Per restare a casa nostra, di narcisismo si è parlato per Salvini, per Conte e in tempi ancora recenti per Matteo Renzi.
Alcuni studi di derivazione neuropsicologica vanno nella direzione di attribuire ai soggetti in posizione di potere una significativa diminuzione dell’empatia e della capacità di percepire correttamente gli stimoli prossimi, e un altrettanto significativo aumento della impulsività e della sottovalutazione del rischio.
Per commentare le recenti vicissitudini politiche mondiali si è anche recuperato un concetto che lo psichiatra polacco Andrzej Łobaczewski ha delineato nella sua opera Ponerologia politica: la patocrazia, ovvero il quadro psicopatologico che affliggerebbe chi sale al potere, un insieme di tratti psicopatici e antisociali.
Ha senz’altro senso riflettere sulle caratteristiche di personalità più compatibili con l’acquisizione e il mantenimento di una posizione di potere. Se non si possiede equilibrio emotivo, compassione, capacità di moderare la propria popolarità e una visione ampia del bene comune, non è difficile arrivare alle derive della parabola che dal potere passano al suo abuso: indifferenza per le posizioni differenti dalla propria, percezione falsata delle proprie capacità e competenze, inflazione del senso di sé, arroganza e violenza. Il potere inebria e crea dipendenza. Ed infatti, qualcuno ha detto, logora chi non ce l’ha. Ma, appunto, chi è che, non avendolo, sostiene spassionatamente chi ce l’ha, fino alla dispercezione degli accadimenti, fino al fanatismo?
Chi c’è dall’altra parte della relazione? Questa riflessione è fondamentale per non cadere in una lettura parziale dei fenomeni. Ed è una riflessione imprescindibile se non vogliamo ridurre la questione della mala gestione del potere alla follia di singoli individui patologici.
Il potere ha matrici simboliche complesse, che raccontano assetti societari estesi in cui i sistemi in luce (ad esempio, il capitalismo) esprimono un pattern articolato di significati, dove dimensioni più evidenti (la gestione economica tra tutte) si mescolano con dimensioni più sottili di natura rappresentativa ed affettiva.
Perché funzioni, un sistema di potere (perché di sistema si tratta) deve rispondere ad un preciso immaginario, che è sempre connotato affettivamente e che si presta a assecondare i desideri, i bisogni, gli affetti di una determinata collettività. Lo sapevano tutti i grandi dittatori che il potere si nutre di una suggestione di massa che a sua volta è fecondata da sentimenti di adulazione e di dipendenza. E ancora oltre, cosa c’è?
La frustrazione, la rabbia, un sentimento profondo di ingiustizia che genera un forte desiderio di rivalsa, accompagnato dalla convinzione di essere giustamente creditori e quindi coerentemente meritevoli di riconoscimento.
Tutte le derive antidemocratiche e populiste si basano su questo assunto, sull’attesa di essere visti e ricompensati.
Laddove il leader carismatico si percepisce al di là del bene e del male, chi lo sostiene passa per una scorciatoia che elude la complessità e pretende una soddisfazione immediata, accettando quella impunità. Le analisi politiche più accreditate dell’ascesa di Donald Trump ci hanno detto che i suoi sostenitori sono quelli più affezionati al sogno americano, i meno disposti a vederne la deriva. Possiamo pensare anche che i nostri anni ‘80, con l’illusione di un benessere crescente e alla portata di fette più larghe della popolazione, abbia lasciato troppe bocche affamate, come se la disillusione sia arrivata troppo in fretta. Come chi è arrivato alla fine di una fila sfiancante per la ricompensa attesa e si vede chiudere lo sportello davanti.
Freud, che ebbe una corrispondenza con il Le Bon autore di Psicologia delle folle, nel suo volume Psicologia delle masse e analisi dell’Io, sintetizzò sul piano psicodinamico i movimenti profondi alla base delle relazioni di potere, anche se la dimensione collettiva di cui parlava Le Bon era difficile da tradurre sul piano delle vicissitudini libidiche dell’Io. Jung, dal canto suo, ricorrendo al concetto della psiche collettiva, arrivò a fare una disamina dell’emergere di impulsi arcaici in collegamento con l’ascesa del nazismo, analisi che possiamo considerare ancora attuale, proprio perché mette in risalto le dimensioni simboliche e immaginative legate a certi grandi avvenimenti sociopolitici. Dall’altra parte di Narciso, c’è sempre un’Eco che desidera essere vista, uno specchio d’acqua e qualcuno che racconta.