Trauma da stress

Trauma da stress

Siamo alla fine degli anni ‘70, la Guerra del Vietnam si è conclusa da poco tempo, ma il ricordo del conflitto è ancora impresso nell’immaginario collettivo mondiale, soprattutto in quello degli statunitensi.
La cessazione delle ostilità era stata chiesta a gran voce dalla popolazione americana, che scese in piazza, guidata dai movimenti pacifisti e anti-militaristi, mentre anche Hollywood si schierò contro la guerra, con l’uscita di film come M*A*S*H di Altman o Comma 22 di Nichols, che mostravano la follia e l’assurdità dei conflitti armati.

Mentre una nuova cultura che denigrava la guerra si diffondeva in tutti gli Stati Uniti, i veterani del Vietnam, nel buio delle proprie stanze da letto si rigiravano preda di incubi, flashback e ricordi delle atrocità vissute in prima persona. La visione delle viscere di un compagno saltato in aria accanto a loro, i rumori assordanti delle bombe, il costante stato d’allerta che un militare vive sul fronte, non li abbandonavano anche a distanza di anni dalla fine dello scontro.
Siamo all’apice dello studio degli effetti che eventi traumatici devastanti hanno sulla psiche degli individui, con l’introduzione definitiva del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) nel DSM, il manuale diagnostico dei disturbi mentali.

I reduci di guerra sembravano non essere mai tornati dal fronte: insonnia, pensieri intrusivi, esperienze dissociative in cui avevano ancora l’impressione di trovarsi sotto la minaccia delle bombe nemiche. Il loro reintegro nel quotidiano divenne difficoltoso, in alcuni casi impossibile. Non erano più in grado di svolgere un lavoro o di mantenere relazioni sentimentali e amicali per periodi più o meno lunghi. La loro mente era ormai cristallizzata nel trauma e molti di loro finirono per abusare di alcol e farmaci pur di gestire le conseguenze emozionali delle esperienze vissute.

Oggi sotto il concetto ampio di “disturbo post traumatico da stress” rientrano moltissime condizioni che hanno la loro origine nel vissuto traumatico: non solo la guerra, ma anche catastrofi naturali o abusi ripetuti (fisici, sessuali e psicologici).

In realtà, la Guerra del Vietnam fu la tappa finale di un percorso cominciato molti decenni prima e la storia di quella che era chiamata nevrosi di guerra è molto più antica.

A seguito del primo conflitto mondiale, la prima guerra anonima e anomica del Novecento, il numero di soldati che tornarono a casa psicologicamente devastati fu talmente ampio che la Grande Guerra è considerata il primo laboratorio di massa che permise la nascita della psichiatria moderna. All’epoca la sindrome post-traumatica era chiamata shell shock, “shock da granata”, e una schiera di medici si prodigò nell’analisi dei sintomi che i veterani riportavano dopo aver assistito ai massacri più violenti.

Fra i vari medici da campo presenti al fronte c’era anche Sandor Ferenczi, psicoanalista ungherese, allievo e amico di Freud, che diede un contributo fondamentale non tanto nell’elencare i sintomi causati dal trauma, quanto nel proporre una lettura delle cause e degli effetti del trauma che ancora oggi, a quasi cento anni dalle sue intuizioni, appare convincente.
Per capire l’importanza del contributo di Ferenczi è essenziale partire da chi la Psicoanalisi la fondò, Sigmund Freud.
All’inizio dei suoi studi con le pazienti isteriche, Freud introdusse la teoria della seduzione. All’origine dei sintomi isterici ci sarebbe stata un’esperienza traumatica, nella maggior parte dei casi un abuso sessuale, che avrebbe causato, in termini pulsionali, “un incremento di eccitamento nel sistema nervoso che questo non è riuscito a liquidare a sufficienza mediante reazione motoria”.
Ancora negli anni ‘20, Freud riconosce che “(...) quegli eccitamenti che provengono dall'esterno sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Penso che il concetto di trauma implichi quest'idea di una breccia inferta nella barriera protettiva che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi”.

Dunque, per Freud, in origine l’esperienza traumatica è alla base della sintomatologia clinica. C’è un evento esterno che irrompe nel sistema di difesa psichica della persona, sconvolgendone il funzionamento.
Con il passare degli anni, tuttavia, Freud si convinse che la teoria della seduzione non fosse esaustiva. La teoria del trauma avrebbe destato scandalo nella società post-vittoriana, perché avrebbe portato alla luce la diffusione capillare di abusi, spesso perpetrati in famiglia, che inquinavano l’alta borghesia con cui Freud era in contatto.

 L’eccesso di eccitamento pulsionale alla base dei sintomi nevrotici doveva essere causata da qualcos’altro, quella che Freud definì fantasia inconscia. Il bambino avrebbe sì vissuto esperienze seduttive, ma frutto delle proprie pulsioni e dei propri desideri inconsci, dunque non vissuti sul piano di realtà, ma vissuti come tali nella propria mente.

Freud propone quindi una visione totalmente intrapsichica dell’esperienza, in altre parole a carico del conflitto interno fra pulsioni erotiche e pulsioni di morte, senza collegamento con traumi concreti generati da altre persone.

Questo fu il punto di rottura tra Freud e Ferenczi. Lo psicoanalista ungherese, infatti, meno vincolato all’alta borghesia dell’epoca, ma abituato a pazienti che provenivano da contesti socio-culturali meno abbienti, non aveva remore nel sostenere che l’esperienza traumatica fosse reale e non solo interiorizzata - e tantomeno generata esclusivamente - come fantasia inconscia.

Ferenczi, infatti, ha una visione relazionale dell’esperienza traumatica. Il trauma non irrompe nel mondo interno della persona come fantasia o idea patogena, ma s’inserisce in un mondo di relazioni e significati che organizzano la psiche sin dall’infanzia.

È dunque l’esperienza confusiva vissuta entro una relazione significativa che genera gli effetti patogeni del trauma. Esperienza che non necessariamente è travolgente e devastante come uno stupro o un terremoto, ma può essere composta da eventi minori, ma continui e ripetuti, che portano al vissuto traumatico. Ferenczi anticipa in questo senso il concetto di “trauma cumulativo” di Khan. 

L’autore ungherese approfondisce la sua teoria nell’articolo La confusione delle lingue tra l'adulto e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e della passione. È proprio la confusione di linguaggi proposti dal genitore che abusa sessualmente del bambino che determina la disorganizzazione psichica in quest’ultimo. Dice Ferenczi:
Se ai bambini che attraversano la fase della tenerezza, si impone più amore o un amore diverso da quello che desiderano, ciò può avere conseguenze altrettanto patogene della privazione d'amore”.

Ma cosa lega le esperienze traumatiche fra loro, dall’abuso sessuale al contesto distruttivo della guerra?
Il linguaggio della violenza può essere, infatti, tranquillamente integrato in un mondo di significati e di emozioni che non portano alla disorganizzazione psichica. Non sembra essere dunque di per sé la violenza a determinare il vissuto traumatico.
C’è qualcos’altro e Ferenczi lo sapeva bene. Qualcosa che chiamiamo diniego/disconoscimento dell’evento traumatico:

è il disconoscimento da parte della madre di ciò che è accaduto a rendere il trauma patogeno (...). La cosa peggiore è quando al trauma viene opposto un diniego, ovvero l'affermazione che non è successo niente (...): è soprattutto questo che rende il trauma patogeno”.

Credo che ciascuno di noi abbia presente quei contesti familiari in cui un padre abusa sessualmente dei figli e la madre rifiuta di accettare l’idea che ciò sia possibile, perché intollerabile per lei e perché fonte di angoscia. Ebbene, proprio la negazione del trauma subìto, da parte di chi dovrebbe proteggere e non aggredire, per Ferenczi è ciò che ha le conseguenze più devastanti sulla psiche

Ma cosa c’entra tutto ciò con il contesto di guerra? Penso che l’ipotesi di Ferenczi sia illuminante anche per descrivere i traumi dei soldati.
È certamente vero che le esperienze di guerra sono violente a livelli estremi e che nessuno di noi vivrà mai nel mondo quotidiano: le bombe, le ferite dilanianti, la morte di massa, la paura di poter essere aggrediti da un momento all’altro.
Tuttavia, affinché queste esperienze terribili possano essere accettate, nel corso del tempo è stato costruito un mondo di significati che accompagnano l’identità del soldato. L’onore, la dedizione verso la patria, il coraggio, il sacrificio per difendere i propri concittadini, reificati nella medaglia al valore, sono moventi che portano ad affrontare la guerra con risorse emotive inconcepibili in un contesto di pace.

Tuttavia, questa cultura dell’onore porta con sé anche altri significati che giustificano il diniego del trauma. Ad esempio, il buon soldato non può mostrare la paura della morte. Nella Prima Guerra Mondiale, chi non era in grado di sopportare la violenza del fronte veniva stigmatizzato come disertore e nel caso avesse provato a fuggire veniva fucilato dai suoi stessi compagni.

Una volta tornati a casa, i soldati non parlavano delle esperienze traumatiche. Non ne parlavano perché nessuno voleva ascoltare racconti così agghiaccianti, ma non ne parlavano anche per tenere fede al patto d’onore con la patria e con il proprio ruolo militare. Mostrare le proprie fragilità, così come parlare apertamente del terrore e dell’orrore vissuto, avrebbe messo in cattiva luce l’esperienza della guerra in sé, ma sarebbe anche entrato in conflitto con i propri valori di soldato.
Il diniego dunque proveniva contemporaneamente dalla Madre Patria (che è appunto madre, dunque figura simbolica significativa) e dal soldato stesso, che tuttavia sperimentava il vissuto traumatico sotto forma di sintomi “imbarazzanti”, da tenere segreti (incubi notturni, stati dissociativi, depressione, abuso di sostanze).

La Guerra del Vietnam sparigliò le carte, perché furono le stesse associazioni di veterani a chiedere a gran voce di riconoscere il trauma dei reduci di guerra, all’interno di una cultura che finalmente stava cambiando i propri valori e guardava alla fragilità del soldato con compassione e comprensione. 

È questo il grande cambiamento introdotto dopo il Vietnam. Non tanto la fine della guerra e della violenza, quanto l’interruzione di quel disconoscimento del trauma che in precedenza aveva portato a danni irreparabili.
Un riconoscimento dell’esperienza e delle emozioni dei soldati che hanno permesso di comprendere meglio anche l’esperienza di altre vittime del trauma, come i bambini o gli adulti abusati.

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