Quando il corpo parla

Quando il corpo parla

Anna è una donna di 59 anni, che viene inviata allo psichiatra dal suo oncologo di riferimento. L’oncologo ha un rapporto di conoscenza trentennale con lo psichiatra, ma questa è la prima volta che decide di inviargli una paziente. Lo psichiatra decide di prendere in carico Anna e la affida a una sua collaboratrice, con la quale comincia il rapporto psicoterapeutico.
Anna è una malata oncologica, ha un tumore che le ha colpito l’utero e che si è metastatizzato fino ai polmoni. Negli ultimi tempi ha subìto cinque interventi molto invasivi e dolorosi e ora sente un profondo vissuto depressivo.
Il suo caso sembra disperato, ma la psicoterapeuta propone ad Anna di parlare del suo contesto di vita, oltre la condizione oncologica.
Anna è sposata da quasi 40 anni con un uomo che non sopporta più, un uomo controllante che non le dà accesso alle finanze e che esige di avere piena gestione di tutti gli aspetti della vita familiare. Una relazione che oggi Anna considera un errore, acuito dal senso di solitudine e di esclusione che prova nel rapporto con suo figlio adottivo.
Suo figlio, oggi 24enne, è un musicista ed è stato adottato in tenera età. L’adozione fu molto complicata per Anna. I primi tempi il bambino non tollerava la sua vicinanza, non amava “essere toccato”, probabilmente a causa degli abusi subiti durante i primi anni di vita.
Con il tempo, la passione per la musica ha legato fortemente il figlio con suo padre adottivo, mentre Anna viene esclusa da questa passione e viene derisa da entrambi.
Anche la sua famiglia di origine non le evoca bei ricordi. La madre di Anna viene da lei definita come “opprimente” e suo padre come “controllante”. Un padre di cui Anna si è sempre presa cura, date le sue condizioni oncologiche ripetute, nei confronti del quale ha sempre ritenuto di avere un ruolo salvifico, che le ha permesso di costruire un’identità personale e familiare che oggi sente compromessa.
Durante il racconto, ad Anna vengono in mente due episodi, che oggi sente molto rilevanti. Il primo riguarda la prima notte di nozze, quando il rapporto sessuale con suo marito fu vissuto da Anna come il crollo delle illusioni, la rinuncia alle aspettative investite nell’ideale matrimoniale. Il rapporto è consumato dal marito in modo egoistico, fino alla sua conclusione, dopo la quale cadde in un sonno profondo. Anna aggiunge che sin dall’inizio ha provato il desiderio di non essere più toccata dal marito.
Il secondo ricordo riguarda la molestia sessuale subita da suo zio all’età di 10 anni, quando Anna si sentì invasa nella sua intimità da chi si fidava. Anna non ha mai raccontato l’accaduto a nessuno, ma ora, nello spazio terapeutico, sente di poterlo fare.


Se partiamo dalle origini della Psicoanalisi, l’idea della conversione somatica, cioè l’espressione di conflitti psichici attraverso sintomi fisici, è sempre esistita. La stessa nevrosi, concetto base della psicoanalisi, partiva dall’indagine di casi legati a quella che veniva definita “conversione isterica”, come nel caso della “cecità isterica”.

Nel corso del tempo, tuttavia, c’è stata una forse eccessiva “psicologizzazione” della patologia fisica, che portò a ritenere, per un certo periodo, che si potessero prevedere i tumori a partire dall’analisi delle caratteristiche di personalità dei soggetti.

Oggi siamo molto più cauti nel rintracciare un legame diretto fra patologia medica e disagio psichico. Tuttavia, lo spazio offerto dall’intervento psicologico e psicoterapeutico permette quantomeno di dare senso ai vissuti che accompagnano la patologia fisica e rintracciare possibili nessi simbolici ed emozionali con l’esperienza psicologica.
Ciò che è fondamentale è recuperare il contesto di significati entro cui vissuto, relazioni e patologia fisica s’incontrano.
Nel caso riportato all’inizio, è anzitutto interessante comprendere in che modo la paziente sia arrivata alla richiesta di intervento psicologico.
La paziente non ha scelto di sua iniziativa di rivolgersi a uno psicologo, ma è stata inviata dal suo oncologo. Un invio che parla prima di tutto del senso emozionale che oncologo e paziente davano alla patologia oncologica.
È, infatti, ipotizzabile che il vissuto di disperazione della paziente sia stato colto a qualche livello dal suo medico curante e che sulla base di tale vissuto “senza via d’uscita” sia stato proposto l’invio.
L’oncologo confessa, infatti, all’amico psichiatra di avere paura di non riuscire a salvare la sua paziente.

Questo tipo di invio non è raro in ambito oncologico. È ancora preponderante una cultura medica che interviene in assenza di confronto con la professione psicologica all’interno del piano di cura. Lo psicologo viene interpellato, il più delle volte, quando il caso è terminale, cioè quando ormai “non c’è nient’altro da fare”. La fantasia implicita, condivisa da parte del sistema sanitario, è che lo psicologo si occupi di ciò che è marginale (i vissuti e le emozioni), rispetto a ciò che è importante (il funzionamento corporeo), e che dunque sia normale considerarlo l’ultima spiaggia quando non si hanno soluzioni mediche efficaci, a metà strada fra il “proviamole tutte” e il desiderio di delegare il paziente irrecuperabile a qualcun’altro.

Nel nostro caso, il vissuto di disperazione, tuttavia, non è tanto sintomo di un dato di fatto (la paziente non sopravviverà), quanto dei vissuti emozionali condivisi fra medico e paziente, entrambi sopraffatti dalla difficoltà della relazione che li coinvolge direttamente. Una relazione che non racconta solo dell’angoscia della malattia, ma che sta portando la paziente a rivalutare la sua intera esistenza alla luce della prospettiva di morte.

È in tale contesto che l’intervento psicologico non è una mera cura palliativa, ma permette di comprendere i nessi simbolici che “l’invasione interna” del tumore ha evocato nella paziente, attivando in lei un vissuto depressivo che più che raccontare la sua attuale angoscia di morte, le ha permesso di rivedere il senso delle proprie scelte (ma anche dei traumi vissuti) matrimoniali e familiari.

Mano a mano che il tumore prendeva spazio nel corpo di Anna, il suo bisogno di avere contenimento e comprensione dei suoi vissuti è diventato sempre più evidente. Una richiesta di dare senso alle emozioni che intanto rappresenta uno sviluppo rispetto al vissuto di disperazione che l’ha portata al primo colloquio.

Durante il corso della psicoterapia, Anna e la terapeuta hanno potuto esplorare il vissuto di esclusione da lei vissuto entro la relazione con il marito e il figlio e quanto la condizione di paziente oncologica ampliasse tale vissuto, perché la poneva nella condizione “passiva” di persona che deve essere salvata, opposta e complementare all’identità che aveva assunto nella famiglia di origine, quando sentiva di poter essere accolta e riconosciuta solo come figura salvifica che si occupa della malattia di suo padre.

Una dinamica emozionale che permette di esistere solo se si salva o si è salvati, ma che non si fonda su una “cosa terza”, ad esempio un interesse comune come la musica, che padre e figlio condividono, al di là della fantasia di salvezza.

Una fantasia di salvezza che, nella sua idealizzazione, porta con sé pericoli profondi. Ad esempio, la molestia dello zio, cioè di una figura adulta che avrebbe dovuto proteggerla, ma anche la prima notte di nozze con il marito, che nel vissuto di Anna rappresenta la perdita del desiderio che si confronta con due estremi emozionali: da una parte l’ideale del matrimonio perfetto attraverso cui Anna avrebbe magicamente dato senso alla sua vita, dall’altra l’impossibilità di incontro, che lascia spazio esclusivamente all’abuso dell’uno sull’altro.

Anche la patologia tumorale, con il vissuto di invasione provato da Anna, propone un terreno simbolico fertile per la proiezione dei due estremi: da una parte il pericolo di morte rappresentato dal tumore che s’incarna, invisibile, all’interno del corpo; dall’altra la salvezza che passa per interventi invasivi estremamente dolorosi, che lasciano senza fiato.
Date queste premesse, l’unica possibilità è l’inibizione del contatto: rinunciare alle cure, desiderare di non essere toccata come è con il marito, ma anche come è stato per suo figlio, anche lui vittima di abusi infantili.

L’intervento psicologico non salva e protegge magicamente dal tumore ma permette di dare senso al vissuto d’impotenza con cui la paziente si propone in terapia. Un’impotenza che, se pensata, può contribuire a migliorare le relazioni che Anna vive nella sua quotidianità.
Riflettere sull’impossibilità di incontro fondata sulla fantasia salvifica e trovare punti di condivisione con suo figlio (ma anche con il marito), basati su interessi altri, può ad esempio essere una strada percorribile per permettere alla paziente di dare senso alla sua vita anche in condizioni così difficili.

PrecedenteLa società dell’Io
SuccessivoDal Nulla