Cosa, come e perché

Cosa, come e perché

Come è noto, la psicologia è un arcipelago di prospettive: teorie della mente e della relazione, metodologie di intervento. Un grande fattore distintivo, a mio modo di vedere, risiede nell’uso della parola. La parola può essere il mezzo comunicativo o può essere pensata – anche - come dotata di valore pragmatico. Attraverso le parole costruiamo e decostruiamo la realtà interna ed esterna, il nostro modo di percepire le cose del mondo e, così facendo, anche le cose del mondo. A tal proposito mi torna in mente quanto avvenuto con una paziente. Si presenta raccontandomi, tra le varie cose, di essere un avvocato. Le chiedo come mai non declina al femminile la parola. Come mai non si definisce avvocata? Molto indispettita mi risponde che non vuole perdere di autorevolezza dando seguito a queste cose da poco conto. Di lì, dopo quasi un anno, ancora lavoriamo sulla questione, sulla cultura machista nel mondo del business tra avvocati e avvocate di grandi studi professionali, su cosa sia autorevolezza e che rapporto ci sia tra genere e culture del lavoro.

Negli studi di psicoterapia le persone portano le proprie questioni talvolta con linguaggio stringato, asciutto. Poche sono le parole per dirsi e per raccontarsi. Antonia Guarini, psicoanalista e psicodrammatista, parla di deriva olofrasica volendo indicare l’uso mortifero della parola e l’abitudine a portare la propria domanda sottoforma di olofrase¹, senza nessun’altra parola che possa metaforizzarla. 

È quanto è accaduto con Federica. Arriva nel mio studio diversi anni fa. Ricordo la sua prima frase: “la immaginavo più grande” e quel rapido tentativo di negoziare sulla tariffa, come a voler subito indicare che era una brava a misurare; come Procuste sul suo letto, allungava o mozzava i malcapitati per renderli a misura delle proprie attese. Federica diceva di voler intraprendere una psicoterapia perché pensava di essere depressa. Questa la parola utilizzata. Il racconto del proprio vissuto si arenava nelle sabbie di un’autodiagnosi, come se in questa parola fosse racchiuso tutto quello che si potesse dire e che io potessi desiderare conoscere. Non si può affermare che fosse una donna che non parlasse, ma ciò che diceva era spesso appaltato ad altri o descrittivo di un contesto esterno. Dei suoi vissuti, di come si manifestasse in lei questa cosa chiamata depressione, nessun riferimento. Una volta, dopo averle chiesto cosa intendesse per depressione, mi confessò di essere molto stupita del fatto che una persona laureata in psicologia non conoscesse questo fenomeno clinico – ancora ne ridiamo - e così mi spiegò. La sua spiegazione consisteva in un breve elenco di alcuni dei sintomi del manuale diagnostico DSM. Federica mi chiedeva di confermarle o disconfermarle la sua autodiagnosi così da mettere una definitiva pietra tombale alla possibilità di lavorare insieme. Voleva che io rispondessi alla domanda “Cos’ho?”. Non è la sola a sentire questa urgenza. Una delle strade di indagine clinica più battute è proprio quella che si apre di fronte a questa domanda. Cos’ho è la premessa della diagnosi nosografica, quello strumento inventato per fare dialogare clinici di tutto il mondo, anche se a costo di sacrificare importanti quote di complessità. Dieci persone con la stessa diagnosi, per esempio Depressione (ci vuole la maiuscola), vivranno dieci vite ed esperienze depressive diverse. Se conosciamo la diagnosi, non conosciamo la soggettività di quell’esperienza, in sintesi non conosciamo Federica e non possiamo ipotizzare un intervento che sia utile per Federica. Un’altra strada molto percorsa è quella che risponde alla domanda “Perché?”. Perché sono triste? Perché mi accade ciò? Qui gli psicologi sanno essere sublimi nell’addentrarsi dentro i meandri eziopatogenetici delle condizioni evolutive del vissuto. Pirotecnie narrative articolatissime su ciò che nella vita dei pazienti ha generato quella o quell’altra condizione. Meno percorsa è una terza strada: “Come?”. Domandarsi come si sente e manifesta quel qualcosa percepito come meritevole di attenzione dentro una relazione clinica è l’area che si apre tra l’oggettivazione diagnostica e la spiegazione causale. Trovare le parole per dire le cose è uno degli obiettivi del lavoro terapeutico. Le tre strade non sono alternative. Credo però che questa terza sia di premessa alle altre due.

Più che verso le cause, resta una ricerca orientata alla costruzione di senso. Poiché l’esperienza soggettiva si manifesta principalmente attraverso il linguaggio, non credo sia azzardato affermare che chi si occupa di clinica possa essere visto come uno specialista del linguaggio e della comprensione che viene in aiuto quando si dà una crisi di senso e non si riescono a trovare le parole per esprimere tutto ciò.



¹ L’olofrase è detta anche parola-frase: è un segno (ad esempio, una singola parola) che trasmette il significato (o contenuto) di un'intera frase. Oggi questa funzione è esercitata, per esempio, attraverso le emoticon.


PrecedenteIstrione
SuccessivoPrima della psichiatria. Caterina da Siena e la Taranta