Il bozzolo pandemico e l’ansia sociale

Il bozzolo pandemico e l’ansia sociale

Saprò ancora fare un nodo alla mia cravatta? si chiede Steven Petrow in un recente articolo apparso sul Washington Post, commentando una delle più comuni azioni di cui si è persa la pratica in quest’anno di pandemia. Ma oltre che per i dubbi sull’outfit, la riluttanza a rientrare nel mondo riguarda la perdita di confidenza verso tutte quelle pratiche che ci impegnano nelle relazioni sociali. L'American Psychological Association, in uno studio pubblicato il mese scorso, ha riferito che, nel complesso, gli americani sono titubanti sul futuro, indipendentemente dallo stato di vaccinazione. Il 49% degli intervistati ha affermato di sentirsi "a disagio nell'adattarsi all'interazione di persona una volta terminata la pandemia".

Questi accenni sembrano tinteggiare uno scenario paradossale: l’abbraccio come metafora del desiderio dell’altro, immagine dell’assenza e di sentimenti di vuoto depressivo durante la reclusione pandemica, mostra inaspettatamente un altro volto, quello del timore e della ritrosia.

E’ necessario allora partire proprio dalla reclusione per comprendere in quali sensi la sottrazione dalle pressioni della socialità si possa configurare, sul piano psicologico, come vantaggio secondario. 

Il fenomeno del ritiro sociale, d’altra parte, non è nuovo. L'hikikomori, che segnala la pratica diffusa soprattutto negli adolescenti di chiudersi letteralmente nella propria stanza rinunciando ai comuni appuntamenti con il mondo (dalla scuola al consumare i pasti in presenza di altri), è termine che ha lasciato il linguaggio di genere per navigare in una popolarità più diffusa. La tendenza al ritiro sociale ha smesso di essere segno di un disadattamento schizoide della personalità individuale e si è progressivamente connotato di un valore socio-relazionale: esiste una sofferenza connessa al confrontarsi corpo a corpo con gli altri, che va dalla insostenibilità della pressione performativa da immagine-social al disagio verso la costruzione dell’intimità con l’altro.

Si tratta di una somma di stimoli: la richiesta di adeguamento a certi canoni di “funzionamento” sociale con la diffusione della cultura digitale è diventata più pervasiva. Nel contempo, nulla come il contatto con l’altro è endemicamente sottoposto al rischio di farci sentire insicuri: non abbiamo il controllo di quello che l’altro è e della sua proposta nei nostri confronti. Sappiamo, dagli studi di psicodinamica sulle relazioni oggettuali precoci, che alla base di molte forme di paure, di ferite e di insicurezze, c’è un rapporto intimo con l’oggetto o gli oggetti d’amore (i caregivers primari) caratterizzato da un rifornimento di cura incostante o ambivalente. Questo assetto può lasciare, sedimentato nella psiche, un senso di minaccia nei confronti degli altri. L’inferno sono gli altri, diceva il filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre. In alcune condizioni, come ad esempio la vertigine di dover tornare nel mondo dopo una così lunga assenza alcuni nuclei affettivi nascosti possono emergere con insolita forza.

Inoltre, l’ansia è uno stato-contenitore, nel senso che spesso chi soffre d’ansia ha difficoltà a distinguere in maniera raffinata gli stati emotivi: ad esempio potrebbe essere difficile differenziare la frustrazione rispetto alla rabbia, la tristezza rispetto alla noia, il risentimento rispetto all’umiliazione e così via. Questa difficoltà a nominare le emozioni contribuisce a fare dell’ansia un generico stato di attivazione e disagio, in cui si mescolano molte situazioni di difficile elaborazione. 

La privazione della socialità determinata dalla pandemia ha favorito la sospensione di molte delle preoccupazioni che normalmente le relazioni ci provocano. Certo non è stato facile sopportare la solitudine, ma il rovescio della medaglia è stata l’opportunità di congelare i molteplici pungoli affettivi legati ai rapporti sociali. Inoltre, la maggior parte delle persone ha avuto l’opportunità di modulare la propria disponibilità di contatto attraverso importanti surrogati della socialità in presenza: video, messaggistica, audio - in diretta o in differita: diciamo che non incontrarsi durante la pandemia non è stato l’equivalente di trascorrere mille giorni soli nel deserto. 

E’ per questo che molte persone, in previsione delle riaperture, possono percepire - dietro la contentezza - l’ombra di un disagio, che non è strettamente legato a preoccupazioni mediche.

Se il New Yorker ha ironizzato sulla deregulation post-pandemica, immaginando uno scenario da fine del proibizionismo, con feste negli scantinati durante le quali assaporare il brivido di farsi respirare addosso da degli sconosciuti, in realtà molti avranno bisogno di recuperare un alfabeto della vicinanza e dell’esposizione al mondo in un tempo più dilatato. Un percorso a tappe per regolare progressivamente il contatto con gli altri corpi, per riabituarsi lentamente a sentirsi sicuri fuori dal proprio bozzolo. 

 

 

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