Violette fa di mestiere la guardiana di un piccolo cimitero in Francia, i suoi vicini, nella descrizione che ne fornisce all’inizio, si definiscono quasi esclusivamente per privazione: “Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità”. I suoi vicini sono morti. Tutte le sfumature di sentimento che forgiano il carattere sono dissipate, l’unica differenza è il tipo di legno delle loro bare.
Questo livellamento che la morte compie, tuttavia, mostra da subito il suo contraltare. Se è impossibile non cedere alla morte la vittoria finale, la vita, nel romanzo della Perrin, irrompe con forza incontenibile. Il dialogo tra la vita e la morte, che si rinsalda attraverso la memoria, è allora il fulcro seducente e vitale di questo libro.
La psicologia riferisce all’angoscia di morte il sorgere o il mantenersi di molte manifestazioni disfunzionali della psiche: l’angoscia di morte, negata perché insostenibile, può riversarsi in una sintomatologia ansiosa invalidante, può insinuarsi con progressivi indizi nell’ipocondria, o essere il terreno da cui germina una depressione.
Nella nostra società, che si è alleggerita progressivamente dei riti di passaggio e frequentemente ha nei suoi confronti una posizione superstiziosa, la morte è un grande rimosso collettivo.
Cambiare l’acqua ai fiori costruisce intorno ad un cimitero un’umanità densa, una comunità che sceglie o è costretta a tenere in connessione la trama dei ricordi e, da questa prospettiva e con questo peso specifico, esprime la sua affettività plurima e complessa.
Per questo è stato accolto con calore, perché parla di sentimenti, di molti sentimenti diversi, e restituisce al discorso dei sentimenti una dignità essenziale, che non scade nel sentimentalismo grazie ad una leggerezza narrativa da commedia.
Saper accogliere nella propria vita l’attraversamento della morte si traduce, allora, nella capacità di accogliere e trasformare le domande che la morte impone sul mestiere di vivere, misurandone il valore e i valori.