Al liceo avevo un professore di italiano che si chiamava Emanuele Cassesa. Era uno scioperato, passava le notti nelle bische clandestine, ma ci spiegava Dante in un modo straordinario. Aveva la capacità di smontare il testo, riducendolo a delle concretezze, da noi facilmente afferrabili e poi ricostruirlo poeticamente trascinandoci nel turbinio di sensazioni e di idee e tornare ai livelli di Dante. L’intera classe, 27 imbecilli, semplicemente lo capiva. Ci tenne tre sole lezioni su Dante, poi disse: "Basta, le lezioni sono finite perché lo stipendio che mi passa lo Stato equivale a tre sole mie lezioni". Protestammo tutti. Allora Cassesa disse: "Va bene, se ci tenete proprio a queste lezioni, allora mi pagate voi privatamente. Non pretendo molto, un pacchetto di sigarette Macedonia a settimana". Così ci tassammo e diventammo esosi, Cassesa doveva fare lezione fino al tocco della campanella, non terminare un secondo prima, perché pagavamo e lo pretendevamo. Solo dopo capii che era un suo abilissimo modo per fregarci tutti.
A parlare è Andrea Camilleri nel testo "La lingua batte dove il dente duole", dialogo sulla lingua italiana tra Andrea Camilleri e Tullio De Mauro.
Mi ha molto divertito immaginare questo professore costruire creativamente le condizioni per lavorare con quel gruppo di studenti. Pagare un servizio è uno dei modi, non l’unico, in cui esercitiamo ed esprimiamo l’interesse al raggiungimento degli obiettivi convenuti.
Nel contesto formativo questo elemento è particolarmente importante. È uno dei modi in cui mettiamo sotto scacco la fantasia adempitiva del fare le cose solo perché si deve. Pensiamo alla parola “compiti”. Con questo termine si indica il lavoro individuale di uno studente. Nei dizionari compare come sinonimo di dovere e derivante da computare e compiere. Un lavoro che ha a che vedere con il portare a termine ed il misurare (abilità, competenze, conoscenze); ma compìto vale anche per garbato, educato e gentile, il che ci fa ipotizzare che ad essere misurate non siano solo gli apprendimenti ma anche le capacità di adeguarsi alle norme del contesto.
Frequentare la scuola dentro un vissuto di doverosità, nella migliore delle ipotesi, ci consentirà di acquisire quel sapere precostituito che il docente/formatore, indipendentemente da noi (chi siamo, perché siamo lì, cosa ci aspettiamo e che uso pensiamo di farcene), ci proporrà. Acquisire un sapere precostituito è cosa ben diversa dal sapersene fare qualcosa. Lo sanno bene i bravi insegnanti che quotidianamente si barcamenano tra la dura lex dei programmi ministeriali e l’adattamento di questi al lavoro con un gruppo classe collocato nella storia. La pandemia, con la sua prepotente irruzione della storia nella scuola, ha rivelato e rilevato quali scuole, insegnanti ed équipes scolastiche fossero più capaci di lavorare per obiettivi - declinare la propria prassi in funzione del contesto - e quanti lavorassero esclusivamente per mandato.
Il professore Cassesa, attraverso l’interruzione della scontatezza della propria prassi (arrivo, faccio lezione, interrogo e vado via), ha messo in discussione il doverismo dell’istituzione scolastica. Inaspettatamente fuori dall’obbligo della lezione frontale, gli studenti hanno potuto domandarsi cosa desiderassero e non come sopportare l’adempimento. Anticipo alcune osservazioni: non è vero che le scuole pagate siano meno a rischio di inconsistenza di quelle non pagate (vedi la querelle circa il rapporto tra scuole pubbliche e private). Giusto. Il tema non credo possa essere posto nei termini del pagare o non pagare un servizio ma dell’avere o non avere committenza nei confronti di quel servizio. In ogni caso, nella scuola infelicemente definita “dell’obbligo”, i clienti diretti del servizio non sono mai paganti; lo sono gli adulti della società, con le proprie tasse, nel caso del servizio pubblico, o con le rette, nel caso del servizio privato. Non ci si può affidare dunque a quello. Come possiamo sollecitare l’interesse al lavoro su un obiettivo condiviso anche dentro una scuola in cui chi sta in classe (studenti e docenti) non sa perché ci sta?
A questa domanda non c’è una risposta valida per tutti perché dipende dalla relazione che si va strutturando ed è quanto avviene ogni volta che si istituisce una relazione psicoterapeutica o di consulenza psicologica.
Anche in uno studio di psicoterapia si può entrare pensando di doverlo fare (per sé, per la famiglia, per curarsi, per la crescita personale, perché me lo ha detto Tizio, perché lo fa anche Caio).
Renzo Carli, psicoanalista e professore di Psicologia Clinica a Roma, nella prima lezione del corso all’Università ci chiese: “Perché le persone vanno dallo psicologo?”. Iniziammo ad associare liberamente sulla questione. Ogni motivo che veniva alla mente affondava le proprie radici nel senso comune (serbatoio di saggezza e nefandezze, non necessariamente in questo ordine). “Perché lo psicologo esiste.”, ci rispose poi. Deludente per molti di noi la risposta, non capivamo. Ci sono voluti anni. La domanda non era affatto banale e aveva tutta l’intenzione di mettere in discussione la scontatezza di quell’incontro, costruirne il senso. La verità è che non lo sai fino a quando non te lo domandi. Se prendessimo sul serio la domanda “Che ci facciamo qui?” e ce la ponessimo l’uno davanti all’altro dopo dieci anni di matrimonio o al primo appuntamento, a scuola come nel lavoro, c’è il rischio che ne possa scaturire una riflessione interessante. In alcuni casi, tra colleghi e con i pazienti, ci si arriva a dire che la terapia finisce quando hai un’idea del perché sia iniziata.
Pensiamo se questa domanda venisse posta nel primo giorno di scuola ad un gruppo di ragazzi il più delle volte presi dalla doverosità e dall’adempimento. E se questa domanda fosse riposta più volte in rapporto a diverse attività?
Anche nella formazione – che, a mio modo di vedere, è uno dei contesti di sviluppo per eccellenza – possiamo costruire quelle condizioni di pensabilità sul perché si è lì e a fare cosa. Senza questo, formazioni e psicoterapie sono solo forme di addestramento più o meno efficaci, più o meno raffinate.