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La negazione è un meccanismo intrapsichico, individuale. Ma ve ne è anche un’accezione sociale. In questo passaggio estensivo, tuttavia, la natura della negazione cambia in parte forma, perché lo stimolo di partenza assume contorni più incerti e più complessi. Generalizzando, si può affermare che la negazione collettiva è più intrinsecamente legata ai valori sociali, si allontana in parte dalla sua matrice reattiva e istintiva e si dirama in passaggi intermedi di calcolo e di opportunità.
“L’uomo è antiquato”, diceva a partire dagli anni ’60 in filosofo ebreo-tedesco Günther Anders, riflettendo sul “dislivello prometeico”, l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti. Nonostante siamo lontani dallo stupore che gli effetti delle rivoluzioni industriali hanno prodotto in termini di radicale cambiamento identitario nelle società e ormai familiarizzati con la dislocazione eterea delle fonti da cui originano gli avvenimenti, il dilemma morale della responsabilità delle cose che accadono è oggi quanto mai cocente (ce lo ricorda, se ce fosse bisogno, la ricorrenza della strage di Ustica di questi giorni).
In un passaggio molto sferzante del suo libro Psicoterapia esistenziale lo psicanalista Irvin Yalom afferma «La responsabilità significa riconoscere la paternità di un comportamento o di un avvenimento. Essere consapevoli della responsabilità significa essere consapevoli del creare il proprio sé, il proprio destino, le proprie situazioni difficili nella vita, i propri sentimenti e, se dovesse essere il caso, la propria sofferenza. Per il paziente che non accetta tale responsabilità, che persiste nel rimproverare agli altri (si tratti di altri individui o di altre forze) della propria disforia, non esiste nessuna possibile terapia».
Ma come regolarsi quando dell’attribuzione di responsabilità diventa difficile seguire le tracce?
La mini serie televisiva su Chernobyl che sta andando in onda in questi giorni, è un buono spunto per rilanciare il problema in tutta la sua drammaticità. Di chi è la responsabilità del disastro? E di che tipo di responsabilità stiamo parlando? Perché non si tratta semplicemente di individuare gli errori umani materialmente connessi al disastro, ma di ricostruire a ritroso tutta l’articolata catena di eventi, credenze, strategie e ideologie che stanno a monte dell’errore.
E, andando a ritroso, fino a dove possiamo dire con ragionevole certezza che “si poteva evitare”?
Seguendo il pensiero di Urlich Beck, teorico della “Società del rischio” possiamo considerare che non è la quantità di rischio, ma la qualità del controllo, la nota incontrollabilità delle conseguenze delle decisioni di civiltà che produce una differenza storica decisiva rispetto al passato. “L’aspettativa istituzionalizzata del controllo e persino le idee guida di “certezza” e “razionalità” stanno collassando. Non il cambiamento climatico, i disastri ecologici, le minacce del terrorismo internazionale, (…) in sé, ma la crescente consapevolezza che viviamo in un mondo interconnesso – che sta diventando fuori controllo – crea la novità della società del rischio.”
Di contro, la diffusa sensazione che nel tentativo di individuare le responsabilità degli accadimenti ci si perda in un lattiginoso pantano può rafforzare la tentazione a ignorare programmaticamente l’elefante nella stanza, in cambio della comodità del fingere di non vedere. Il sospetto, cioè, è che la complessità dell’attribuzione delle responsabilità diventi un generalizzato appello ad un’impunità intrisa di malafede e di inerzia.
E allora è necessario continuare a riflettere sulla negazione nei suoi diversi versanti, sociale e individuale, per trovare antidoti alla tendenza a spostare sempre lontano da sé l’origine delle cose che accadono. La responsabilità riguarda il processo di attribuire il peso alle cose e essere disposti a portare i pesi che ci riguardano. Se la colpa è messa sempre fuori, i processi di crescita e di consapevolezza etica si arrestano e Prometeo rischia di perdere il senso del fuoco che ha faticosamente rubato agli dei.
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