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L’appuntamento annuale nasce nel lontano 1997 - anche se il film è un caposaldo degli anni ‘80 - quando Italia 1 decide di inaugurare una nuova tradizione, andando a sostituire quella precedente, nostrana e legata indissolubilmente alla Rai, di Natale in casa Cupiello.
Da tempo ci si interroga sul perché il film sia diventato un cult natalizio ed i motivi sono principalmente tre.
In primo luogo, la storia è un topos letterario introdotto da Mark Twain ne Il principe e il povero e tratta il tema delle diseguaglianze sociali con misura salomonica, conservando quella necessaria redenzione del potere economico e capitalista che anche Dickens aveva già narrato e che evidentemente a Natale siamo tutti più disposti ad accogliere nella sua funzione moralizzante tipica delle fiabe
In seconda battuta, la pellicola è una sintesi dei valori degli anni ‘80 e dell’ascesa della finanza. La scena finale della speculazione sul succo d’arancia, che sfrutta un’informazione governativa non pubblica, divenne talmente iconica che nel 2010, quando il governo statunitense decise di rendere illegale tale pratica, il provvedimento venne definito “Eddie Murphy Rule”, proprio in onore al film.
Infine, il pretesto narrativo tratta una delle diatribe fondamentali della ricerca psicologica, il ruolo della genetica ovvero dell’ambiente sociale nella definizione della personalità criminale. Questo terzo punto è il motivo per cui ne parliamo in questa sede.
La trama parte da una scommessa di due anziani e ricchissimi industriali. Prendendo un uomo bianco e di successo (interpretato da Dan Aykroyd) ed un criminale afroamericano che abita in un contesto svantaggiato (Eddie Murphy) ed invertendone i ruoli, gli esiti sarebbero gli stessi? Cosa determina il crimine: il nostro corredo genetico o le condizioni socio-economiche in cui nasciamo?
Questo tema è stato dibattuto sin dagli albori della psicologia sperimentale. Se agli inizi del ‘900, la versione razziale e innatista di Lombroso sulla personalità deviante aveva accompagnato con entusiasmo positivista lo sviluppo dell’antropologia criminale, con il tempo il modello entrò in crisi e venne sostituito dal suo radicale opposto. Già negli anni ‘20, John Broadus Watson, precursore di quello che sarà il comportamentismo americano degli anni ‘40-’50, sosteneva una tesi che pendeva sul versante del determinismo ambientale.
Lo stesso Watson diceva: “Datemi una dozzina di bambini sani e farò di ognuno uno specialista a piacere, un avvocato, un medico. A prescindere dal suo talento, dalle sue inclinazioni, tendenze, capacità, vocazioni e razza”.
Oggi le due posizioni appaiono datate, sia quella di Lombroso (tutto è scritto nei geni), sia quella di Watson (è tutto causato dal condizionamento ambientale). La psicologia e le neuroscienze ormai tendono ad una soluzione di compromesso. Non esiste un determinismo genetico, quanto una predisposizione genetica a delinquere o ad avere successo (genotipo), che tuttavia è favorita dalle condizioni ambientali in cui nasciamo e cresciamo (fenotipo). E’ in quest’ottica che il neurobiologo James Fallon, pur avendo riscontrato in sé i tratti genetici della psicopatia, è in grado di spiegare perché sia diventato un professore e non un assassino.
Il film Una poltrona per due, tuttavia, ad una prima e distratta occhiata, sembra parteggiare più per la posizione watsoniana. Un bianco di successo, se ridotto sul lastrico dagli eventi o dalle condizioni ambientali, può cominciare a commettere crimini. Un criminale afroamericano nato in un quartiere malfamato può diventare direttore d’azienda, se l’ambiente glielo permette. La genetica non ha alcun ruolo, l’ambiente ne ha moltissimo, sembra volerci comunicare il regista.
Alla lettura dichiarata, tuttavia, possiamo accompagnare un livello subconscio che richiede un pensiero metanarrativo un po’ più complesso. Siamo sicuri che qualsiasi afroamericano del ghetto, nelle giuste condizioni ambientali, avrebbe avuto successo? Allo stesso tempo, siamo sicuro che qualsiasi bianco ricco ridotto sul lastrico avrebbe cominciato a delinquere? Eddie Murphy, al netto delle esigenze artistiche della commedia, non è un afroamericano qualunque, né tantomeno è svilito e arrabbiato per la sua condizione. E’ simpatico, è furbo, si sa adattare ad un contesto sfavorevole. Più va avanti il film, più si ha l’impressione che lui, proprio lui, avrebbe avuto bisogno solo di un’opportunità e che l’avrebbe saputa cogliere. In qualche modo se la meritava e l’ambiente era esclusivamente un impedimento alla piena espressione del suo talento.
D’altro canto Dan Aykroyd è antipatico e presuntuoso. E’ colui che ha avuto successo, ma che ha finito per darlo per scontato. Non ha saputo apprezzare le condizioni ambientali in cui versava. La sua caduta patetica negli abissi del crimine ci gratifica e ci assolve: in fondo anche lui se lo meritava.
E allora ecco qui che la diatriba geni vs. ambiente sociale è superata dalla cultura del self made man, del think positive, insomma di tutto quello che può essere definito smaccatamente “a stelle e strisce”. La meritocrazia americana profondamente individualista è la vera base morale e psicologica del film, che diventa un vero e proprio ambasciatore culturale dell’american dream nel mondo. L’ambiente conta oltre i geni solo in apparenza, ma alla fine sono i talenti individuali ad emergere, ritornano i caratteri, innati o appresi poco importa.
Il contesto sociale dunque resta sullo sfondo come un bosco in cui si cercano i funghi. Se non hai fiuto, intuito e colpo d’occhio tornerai a mani vuote.
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