Trilogia della città di K., di Agota Kristof

Trilogia della città di K., di Agota Kristof

La Trilogia della città di K. assomiglia a un sogno: del sogno ha la forma narrativa elementare, del sogno ha l’improvvisa rottura degli schemi logici, del sogno ha l’assenza strutturale di contraddizione, del sogno la crudezza delle emozioni, che vengono deposte sulle pagine come se vi si deponessero oggetti.

Sembra che l’autrice Agota Kristof, nel comporre le tre parti di questa opera, in cui ci si aspetta che la terza ed ultima sia sintesi hegeliana delle prime due ma non lo è, abbia avuto accesso a materiali archetipici basilari, e che li abbia plasmati rimanendo fedele a quella prima visione irregolare e rotta, che incanta il lettore e nello stesso tempo lo mette a dura prova. 

Il romanzo parte dal Grande Quaderno e tratteggia la storia di due gemelli, che scopriremo chiamarsi Claus e Lucas, lasciati dalla madre presso la nonna, in un luogo e tempo dai confini labili, assediati dalla minaccia della guerra. Guardiamo gli accadimenti attraverso le parole dei gemelli, che fronteggiano esperienze radicali e crude e progressivamente si fortificano attraverso la narrazione che rimbalza dall’uno all’altro. 

Nel secondo atto (la Kristof ha scritto per il teatro e si vede), i gemelli si separano: Claus passa la frontiera, Lucas resta. Di quest'ultimo seguiamo il racconto, declinato in terza persona, che si carica di dubbio e ci accompagna a domandarci se un gemello esista davvero. 

Nell’ultima parte, La terza menzogna, è Claus che racconta la sua vita e il ritorno di Lucas. 

Ma troppi fili restano appesi e troppi conti non tornano. Esistono davvero due persone? Dov’è la verità? 

Se vogliamo trovare un metatesto psicologico da seguire per interpretare questo libro possiamo farci sedurre dalla traccia del doppio: due sono i gemelli, doppio è il registro del racconto. Cercando di definire psicologicamente la categoria “timica” del doppio, Freud incontrò il perturbante (unheimlich), ciò che è ad un tempo familiare ed estraneo. Nel leggere la Trilogia siamo costantemente accompagnati da questa vibrazione, l’uno non si contrappone definitivamente all’altro, l’uno e l’altro si accavallano, si confondono, si contraddicono e ci disarcionano, lasciando rimbalzare la domanda su cosa sia l’identità e cosa la verità.

La Trilogia sembra, per questo, un tributo alla relazione con l’inconscio e con le sue storie: ritorte, abbozzate, fantastiche e allo stesso tempo concretissime e senza orpelli. 

Nella mancanza di una soluzione che chiuda e giustifichi la storia (con in sottofondo la Grande Storia della guerra), la Kristof ci dà la possibilità di vivere l’asimmetrico e l’incongruente. Ci consente di sostare nell’inquietudine, che attraverso la perizia del suo raccontare, restituisce all’arte la sua capacità di rompere gli argini del conosciuto e spalancarsi all’immaginario come luogo del possibile. 

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