Come un adulto prende al volo un ragazzo che sta per cadere?

Come un adulto prende al volo un ragazzo che sta per cadere?

“Il giovane Holden” è il titolo italiano del romanzo che ha reso J. D. Salinger famoso in tutto il mondo. Il titolo originario, “The Catcher in the Rye” reso letteralmente in italiano suonerebbe come “il prenditore nella segale”, che nella narrazione è un verso di una canzone che il protagonista Holden Caulfield ascolta mentre vaga dopo essere stato espulso dalla scuola e che gli fa sognare di essere da grande quel personaggio che coglie i ragazzini al volo impedendogli di farli precipitare nella voragine che si apre mentre giocano nei campi di segale. Il riferimento è il passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta, quel divario che segna l’appartenenza a due generazioni, in cui una si pone come guida e modello e l’altra come apprendista ed erede.

Cosa rende questa relazione viva e nutriente? Come un adulto diventa credibile nella funzione di dirigere ed insegnare? Questa è la domanda che sottintende il romanzo di Salinger (che ci offre di schierarci contro la strisciante ipocrisia dei grandi) e senz’altro è la domanda che dovremmo porci quando parliamo di tutti quegli istituti, formali e informali, di trasmissione di sapere e comportamenti: la scuola, senz’altro, l’educazione in famiglia, certamente. 

Domanda che diventa via via più critica quando ci si allontana da modelli di autorità con perimetri ben definiti, come potevano essere quelli che regolavano le generazioni fino probabilmente agli anni ‘60 - ‘70, quando una serie di movimenti sociali e politici hanno messo in discussione molte categorie della rappresentazione di se stessi e delle relazioni tra le persone. Alcuni noti autori di matrice psicanalitica, come ad esempio Luigi Zoja ne “Il gesto di Ettore” e più recentemente Massimo Recalcati con “Cosa resta del padre?”, hanno riflettuto sui profondi mutamenti della figura paterna, intesa come metafora di definizione dei regolamenti e delle prescrizioni del comportamento, come tutore della norma. 

C’è stato indubitabilmente molto da guadagnare da una più fluida modulazione dei modelli di autorità, è stata senz’altro una conquista la più ampia condivisione di esperienze tra generazioni, la crescente attenzione data alla dimensione affettiva delle relazioni e lo spazio affidato al dialogo come strumento di confronto e di crescita. 

Come tradurre i cambiamenti epocali relativi alla prescrizione dei comportamenti in questi giorni in cui il dibattito pubblico si rivolge ai comportamenti dei giovani con modalità ondivaghe, a volte mettendo a fuoco l'imprescindibile necessità dell'apertura delle scuole e a volte la supposta irresponsabilità degli assembramenti?

Viene il sospetto che la categoria degli adolescenti sia sempre più guardata dal di fuori e sia gravata di molte proiezioni interpretative. La velocità dei cambiamenti in corso può produrre anche questo fenomeno: le chiavi di accesso all’interpretazione di un fenomeno possono essere obsolete.

Ma le domande di oggi, dentro e fuori il dibattito sulla scuola, restano vivide.

Come si fa a impedire che bambini di dieci anni giochino insieme non appena ne abbiano l’opportunità? Come persuadere un adolescente a privarsi di quelle esperienze di esplorazione e contatto con l’altro che sono generalmente quello che rende un’estate indimenticabile? Come giudicare le condotte di socializzazione a distanza senza conoscerne il codice e l’universo affettivo?

Quello che stiamo vivendo non è “la normalità”, è con ogni evidenza uno stato di allarme diffuso di cui non abbiamo ancora la misura e su cui il dibattito pubblico, portato avanti da adulti, continua a fornire scenari incompleti, ambigui, contraddittori, spesso concretamente insostenibili. Il continuo clamore intorno alle cose giuste da fare per affrontare la pandemia, le formule definitive che si costruiscono e smontano in un giorno, le modalità psicotiche dell’informazione, senz’altro hanno impedito e impediscono la definizione di un panorama coeso, logico e deducibile dei comportamenti da prescrivere.  

Se allora l’eredità della funzione paterna più sintonica con i mutamenti di quest’epoca in rapida accelerazione è la capacità di confrontarsi con il limite con coerenza e responsabilità, ne consegue che quanto di meglio possiamo passare alle generazioni più giovani in questo momento, con i necessari distinguo legati alla risorse dei nostri interlocutori di poter comprendere e assimilare ciò che gli stiamo trasmettendo, è la più autentica disponibilità ad accogliere e contenere il timore di attraversare un tempo incerto.

Quello che di meglio possiamo offrire, al di là della letteralità delle prescrizioni, è un modello vivo di comportamento, che possa risultare credibile perché lo è nel senso di fondo che sottende le azioni e lo è anche nella disponibilità a comprendere le esigenze istintive dei bambini e degli adolescenti, offrendo al contempo un contenitore in grado di trasformare le emozioni grezze (rabbia, frustrazione, paura, desiderio, gioia) in traiettorie di comportamento percorribili. Provare ad incarnare lo spirito del prenditore nella segale, per evitare che i ragazzini cadano nei buchi dei campi dove stanno giocando, cercando di sostenere un divieto quando lo consideriamo inderogabile ma anche di accettare una trasgressione quando la consideriamo inevitabile.

 

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