Possedere poco o generare poco? Cos’è la povertà?
Non è solo un’astratta e cervellotica distinzione concettuale ma il tentativo di esplicitare una teoria su ciò che costituisce valore nella nostra vita. L’una o l’altra posizione fa la differenza.
Diversi anni fa ebbi modo di lavorare con i servizi territoriali nel crocevia di diverse misure di contrasto alla povertà. Mi interfacciavo quotidianamente con decine di famiglie individuate come aventi diritto ad un supporto economico. Il criterio utilizzato faceva riferimento ad una soglia minima di reddito familiare al di sotto del quale veniva riconosciuto uno stato di necessità. L’occasione offerta da questi incontri mi ha messo nella condizione di ripensare il concetto di povertà, così come il suo contrario. Tali riflessioni mi sono state di grande aiuto nel lavoro psicoterapeutico e nella vita tutta.
Ricordo con nitidezza l’incontro con una famiglia ritenuta povera ed il loro racconto di come si fossero industriati per festeggiare il compleanno del figlio di sette anni. Attinsero a tutte le loro risorse (sociali, affettive, culturali), presero l’assenza di denaro come condizione ma non come ostacolo. Con inventiva e creatività realizzarono una bella festa ed il figlio, insieme agli amici, fu molto contento. Lo stesso giorno andai in studio. Avevo appuntamento con un uomo di mezza età. Lavorava come grafico dentro una grande agenzia pubblicitaria. L’insoddisfazione era la cifra emozionale dei suoi racconti. Una parte significativa del colloquio era dedicata a lamentarsi: ora delle condizioni contrattuali precarie e di una paga oraria insufficiente, ora della moglie distratta e disinteressata, alle volte degli amici assenti, e così all’infinito. Mi sentivo investita ed invasa da questa emozionalità impotente. Ogni tentativo di parlarne, differente dalla solidale commiserazione, veniva respinto e vissuto come una scarsa sintonizzazione sulla propria sofferenza. Mi veniva chiesto di dimostrare di essere capace di sostenere e accogliere tutta quella lamentosità senza esserne distrutta. Solo dopo, ci sarebbe stata la possibilità di dare senso a quanto venisse condiviso. Una delle cose che quest’uomo mi ripeteva più spesso era: “non me lo posso permettere”. Con questa affermazione liquidava qualunque ipotesi di sviluppo personale o iniziativa differente dal passivo soccombere agli eventi. Non poteva permettersi di partire con la moglie o con gli amici per godersi una pausa dal lavoro. Non poteva permettersi di discutere con il proprio capo circa le condizioni contrattuali. Non poteva fare sport perché senza tempo o soldi per andare in palestra. La scarsità di risorse economiche rappresentava per lui una cifra significativa di questo vissuto e i soldi funzionavano da testo e da pretesto a molti suoi discorsi.
Alla luce di questo breve racconto, mi pongo nuovamente la domanda: chi è il povero? Indubbiamente l’uomo che ho incontrato nel mio studio possiede più risorse economiche della famiglia conosciuta nei servizi territoriali, eppure, quest’ultima parrebbe vivere una vita infinitamente più ricca da un punto di vista emotivo, sociale ed affettivo. “Non poterselo permettere” è una cultura. Un modo di rappresentare dentro di sé e nelle relazioni sociali il rapporto con le risorse e con i limiti, con ciò che c’è e ciò che manca. È una cultura che aggredisce fortemente l’ipotesi che la qualità della vita possa risiedere nel modo in cui stiamo in relazione alle cose, e non con le cose in sé. L’idea che si possa godere della propria vita solo a condizione che la realtà sia in uno specifico modo è piuttosto diffusa, costituisce parte importante sia del senso comune che dell’impalcatura concettuale di molte politiche pubbliche di contrasto alla povertà.
Mi è tornata in mente la nota Piramide di Maslow che organizza gerarchicamente le necessità dell’individuo e ne ipotizza uno sviluppo lineare e consequenziale: alla base i bisogni fisiologici, successivamente quelli di sicurezza e appartenenza, infine stima e solo per ultima l’autorealizzazione. Questa proposta è stata amata e odiata, ed ha avuto un’efficacia narrativa innegabile nel XX secolo. I principi di base sono a fondamento dell’ipotesi che le cose belle e buone della vita te le devi poter permettere, e che vivere con soddisfazione la propria vita, non è per tutti. I sussidi economici rivolti a cittadini e famiglie in stato di necessità hanno spesso dei vincoli d’uso fondati su questo principio: contributi utilizzabili solo per acquisti di prima necessità (cibo, medicinali per esempio), come se non si morisse anche per mancanza di stima e senso o come se una relazione affettiva nutrisse meno di un pezzo di pane.
Differente è la proposta di Amartya Sen. Premio Nobel per l’economia nel 1998, la sua teoria si basa su un concetto fondamentale, uno degli organizzatori del suo edificio scientifico: la povertà è l’impossibilità che ha una persona di poter svolgere la vita che amerebbe vivere nel contesto in cui si trova. L’antropologo Arjun Appadurai aggiungerebbe che la povertà è anche la compromissione della possibilità di immaginare il cambiamento. La letteratura psicoanalitica parla di competenza a desiderare.
Non sono i soldi a ridurre la povertà. I soldi aumenteranno i consumi e renderanno migliori alcuni aspetti strutturali della quotidianità ma non metteranno le persone nella condizione di godere della propria vita o di orientare la propria vita verso ciò che amano.
Tornando all’esperienza dell’uomo incontrato nel mio studio. Per lui furono importanti due cose: che la sua impotenza non venisse trattata come un fatto indiscutibile e che la lamentela venisse trattata come aggressione ai rapporti. Ognuno di noi può attraversare ed essere attraversato da questa fantasia di povertà, viverla ed esprimerla a proprio modo. Forse può valere la pena domandarsi come ci si sente poveri piuttosto che di cosa ci si sente poveri, chissà che non cambi qualcosa.