Alimentazione e cancro al seno: la dieta oncologica “in soggettiva”

Alimentazione e cancro al seno: la dieta oncologica “in soggettiva”

a cura della Dott.ssa Stefania Carnevale

E’ di questi giorni la divulgazione dei risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista Cancer Research (Reggiani, 2017) che conferma lo stretto legame di causa ed effetto tra il sovrappeso ed il tumore del seno. Lo studio descrive i meccanismi utilizzati dalle cellule adipose per favorire la crescita locale e metastatica della neoplasia confermando come, nelle donne in sovrappeso, il tumore della mammella abbia un’incidenza più elevata, una prognosi peggiore e un’aumentata farmacoresistenza. Queste le evidenze sperimentali, con un’importante ricaduta dal punto di vista della prevenzione e della terapia di un tipo di neoplasia con larga diffusione nella popolazione femminile. Si calcola, infatti, che una donna su nove si ammalerà di tumore al seno nel corso della vita. Come professionisti della relazione ci interroghiamo, allora, su come individuare, ascoltare, valutare e supportare i bisogni, sempre in via di evoluzione, delle donne che si confronteranno con la malattia. Quando i dati generalizzati, infatti, si incontrano con l’individualità, il terreno diventa fertile per parlare dei vissuti e di tutta quella costellazione di pensieri, emozioni e rappresentazioni che si accompagnano alla malattia. Essi sono unici perché frutto delle esperienze delle persone. L’elaborazione delle esperienze, poi, e la trasformazione dei fatti in storia è ciò di cui si occupa la psicologia. 

“Quello che il tumore mi ha restituito…” è un’affermazione pronunciata da una giovane donna, Irene (nome di fantasia), come premessa alle sue riflessioni, durante il primo colloquio, quando giunge presso il Servizio di Psiconcologia della Breast Unit dove è in cura per un tumore del seno1. Potrebbe essere il titolo di un racconto di una psicoterapia, di per sé una narrazione, in quanto parole che ri-aprono gli occhi su tutto ciò che è messo in discussione quando si affronta un cancro e che una psicoterapia può contribuire a far guardare con occhi altri proprio nel momento in cui si è centrati solamente su tutto quello che la malattia toglie. La domanda di Irene nasce quasi al termine della radioterapia, momento in cui si trova a dover effettuare un cambiamento che riguarda ed ha riguardato, a 360 gradi, tutti gli ambiti della sua esistenza. 

Chi lavora in oncologia sa, perché glielo hanno insegnato anche i pazienti, che il termine delle cure in realtà è un passaggio importante, delicato, spesso ambiguo: si transita ufficialmente dall’identità di malato oncologico a quella di “guarito” ma, allo stesso tempo, la malattia è presente ancora nella mente con tempi e modalità differenti da quelli del corpo. Prendere coscienza di questo momento spesso corrisponde alla richiesta di un supporto psicologico per capire come permettere alle proprie emozioni di dialogare ancora e diversamente con il corpo. 

Offre stimolanti spunti di riflessione il fatto che Irene abbia pronunciato quelle parole alla fine di una radioterapia e all’inizio di una psicoterapia, perché ha aperto sicuramente le porte alla possibilità di intraprendere con lei un lavoro centrato su un profondo cambiamento di sé e non solo sulla necessità di un adattamento alla malattia con le emozioni che ne derivano. Parallelamente e conseguentemente al supporto psicologico, Irene si dedica sempre più ad una maggiore cura del proprio corpo, riprende l’attività fisica con moderazione e si impegna in un cambiamento importante di stile alimentare adattando le indicazioni di un nutrizionista, esperto di alimentazione in oncologia, alla sua individualità. Mesi dopo scriverà una testimonianza riguardante il suo rapporto con il cibo dal titolo: “IL CIBO E ME – La dieta oncologica in soggettiva” nella quale, tra le prime righe, si legge: “Insomma… Nulla era come prima, prima del cancro. Il dopo andava riscritto, con calma. Le lettere erano sempre le stesse, ma la costruzione della frase era diversa… Dovevo re-imparare. Sto re-imparando…”. Nel suo scritto parla di cibo e alimentazione che, durante la psicoterapia, diventano espressione della propria identità e metafora delle sue relazioni. Racconta di tutto quello che in una dieta oncologica non esiste: il soggettivo, l’individualità e tutto il mondo di significati collegati al rapporto con il cibo, con la propria immagine corporea e al vissuto di malattia. In oncologia il cibo diventa farmaco o veleno (gli oncologi ci informano che il tumore si “alimenta” di zuccheri) e le prescrizioni dietetiche tolgono spazio a tutte quelle sfumature emotive collegate al piacere, alle relazioni, alle tradizioni familiari e culturali: diventa fondamentale il mantenimento del peso forma o l’induzione di un calo ponderale nelle condizioni di sovrappeso, l’introduzione o l’aumento di consumo di cibi salutari e utili alla prevenzione primaria delle malattie, l’evitamento di cibi ritenuti dannosi. Ma cosa si può conservare di personale e soggettivo e, quindi, di attivo e partecipativo, nell’intraprendere una dieta così prescrittiva come può essere quella per i pazienti con cancro che, spesso, ha una vera e propria valenza terapeutica nei trattamenti oncologici? Potrebbe la dieta e, in senso lato, un’alimentazione maggiormente consapevole, rimanere o diventare uno dei pochi ambiti di gestione attiva di se stessi e della propria malattia o stato di salute? Nel “Manifesto per l’umanizzazione delle cure in oncologia” (2017), citando l’ormai riconosciuto modello clinico bio-psico-sociale, si fa riferimento proprio alla promozione dell’autodeterminazione del paziente attraverso una comunicazione efficacie e per tutti quegli aspetti decisionali in cui è dato ruolo centrale alla persona che diventa co-responsabile della propria salutogenesi e, quindi, in grado di gestire l’adattamento alla malattia. La letteratura scientifica in merito ci conferma, altresì, come la partecipazione attiva del malato sia fondamentale nel raggiungimento di una gestione efficace e il più possibile sostenibile dei servizi sanitari (Fisher et al., 2016). In particolare, in ambito oncologico, le evidenze sottolineano quanto il coinvolgimento del paziente nel percorso di cura garantisca un miglioramento dell’outcome clinico (Krouse et al., 2016; Ashraf et al., 2013; Stacey et al., 2008) e della qualità di vita fisica e mentale (Krouse et al., 2016; Ashraf et al., 2013). In un contesto, quindi, in cui l’alimentazione assume un significato rilevante sia dal punto di vista delle politiche di prevenzione primaria, che di clinica inerente la terapia oncologica, perché le pazienti ricevono tutte le indicazione sul cosa mangiare ma poche sul come attuare un concreto cambiamento di stile alimentare? E’ su questo quesito che possiamo riflettere su un’area di ampie possibilità di intervento da parte dello psicologo, proprio in riferimento al supporto al cambiamento e alla gestione delle proprie risorse di autoefficacia, inteso come le “convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati” (Bandura, 2000). In altri termini, quindi, la percezione delle persone di sentirsi in grado di poter affrontare una determinata situazione o perseguire taluni obiettivi.  

L'autoefficacia svolge un ruolo centrale nei cambiamenti sia influenzando direttamente i comportamenti di promozione della salute sia influenzando tutti gli altri determinanti ad essa connessi (Bandura, 2004; 1977). Durante un percorso di cambiamento di stile alimentare che si trova all’interno di un altro percorso, ad alto rischio di distress, come quello delle terapie oncologiche, potrebbe risultare particolarmente gravoso modificare le proprie abitudini. Ci sembra però possibile riconoscere la possibilità di nuovi spazi di autodeterminazione e di autoefficacia. Sappiamo, oltretutto, che promuovere il senso di autoefficacia in oncologia rappresenta un fattore protettivo nei confronti della sintomatologia depressiva conseguente alla malattia (Carnevale, 2016). Il comportamento alimentare è sicuramente un’area di abilitazione e riabilitazione inerente la gestione consapevole del proprio corpo, nel momento in cui sembra essere fuori da ogni controllo a causa della malattia. Come Irene afferma: “d’altronde, dopo un intervento chirurgico, dopo le terapie radio o chemio, durante una menopausa indotta, insomma, dopo tutti i cambiamenti che la circostanza impone, ancora prima della dispensa c’è da trovare il nuovo specchio in cui riconoscersi, quell’immagine di sé che è stata travolta dagli avvenimenti e che va ricostruita. Un passo alla volta ovviamente, anche se all’inizio si vorrebbe farli tutti insieme. Almeno io”.  Le sue parole fanno pensare al modo in cui sta cercando di ri-scrivere la sua storia, narrando anche ciò che si può trasformare durante il viaggio del dolore fisico e mentale. Durante la terapia ormonale acquisterà qualche chilo… poco male, perché comunque rimarrà normopeso ma riappropriandosi di una nuova immagine di sé e, accanto ad un’alimentazione qualitativamente più sana, l’ansia del controllo diventerà consapevolezza: 

“Non c’era bisogno di affannarmi sul tapis roulant come fossi Messner, perché il cancro non sarebbe tornato precocemente se non avessi ritrovato subito la forma... Bastava camminare, magari ad un passo che si sarebbe gradualmente fatto più sostenuto e veloce, possibilmente nel verde dove lo sguardo poteva allargarsi e la mia mente liberarsi e godere… Se la mia immagine allo specchio era sfocata, finalmente quella del mio passato era nitida e per questo qualcuno di quei chili in più piace anche a me… La mia immagine andava definendosi, si sta definendo, ma finalmente sto guardando nella giusta direzione. Sto guardando me”. 

A corollario di quanto detto, ricordando in una delle ultime sedute le parole citate nel titolo, si rifletterà insieme sul parallelismo tra il rapporto con il cibo e le relazioni, Irene mentalizza e trasforma metaforicamente il significato dei suoi comportamenti e si emoziona della sua ri-scoperta, grazie al suo percorso e a quello che, come afferma: “la psicoterapia le ha restituito.” 


Per approfondire

  • Ashraf A. A., Colakoglu S., Nguyen J. T., Anastasopulos A. J., Ibrahim A. M., Yueh J. H., Lin S. J., Tobias A. M., & Lee, B. T. (2013). Patient involvement in the decision-making process improves satisfaction and quality of life in postmastectomy breast reconstruction. Journal of surgical research, 184(1), 665-670.
  • Bandura, A. (1977). Social Learning Theory. Prentice Hall; Englewood Cliffs, NJ.
  • Bandura A (2000). Autoefficacia. Toeria e Applicazioni, Trento, Erikson.
  • Bandura A. (2004). Health promotion by social cognitive means. Health Educ Behav. 31:143–164.
  • Carnevale S. (2016) Distress e chemioterapia neoadiuvante nelle pazienti con tumore del seno: il ruolo protettivo dell’autoefficacia percepita. Tesi di Dottorato in: SCIENZE DELLA NUTRIZIONE, DEL METABOLISMO, DELL'INVECCHIAMENTO E DELLE PATOLOGIE DI GENERE. Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.
  • Fisher, E. S., Shortell, S. M., & Savitz, L. A. (2016). Implementation science: A potential catalyst for delivery system reform. JAMA, 315(4), 339-340.
  • Krouse, R. S., Grant, M., McCorkle, R., Wendel, C. S., Cobb, M. D., Tallman, N. J., Ercolano E., Sun V., Hibbard J. H., Hornbrook M. C. (2016). A chronic care ostomy self-management program for cancer survivors. Psycho-Oncology.
  • Merck, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) e Università degli Studi di Milano (2017). Manifesto per l’umanizzazione delle cure in oncologia.
  • Reggiani F., Labanca V., Mancuso P., Rabascio C., Talarico G., Orecchioni S., Manconi A., Bertolini F. (2017). Adipose Progenitor Cell Secretion of GM-CSF and MMP9 Promotes a Stromal and Immunological Microenvironment That Supports Breast Cancer Progression. Cancer Research (18) 5169-5182; DOI: 10.1158/0008-5472.CAN-17-0914.
  • Stacey, D., Samant, R., & Bennett, C. (2008). Decision making in oncology: a review of patient decision aids to support patient participation. CA: a cancer journal for clinicians 58(5), 293-304
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