Bravi genitori

Bravi genitori

Se dovessi azzardare di utilizzare il senso di colpa come organizzatore di una categorizzazione fantastica – alla Borges - delle persone che incontro nel mio lavoro, i primi a venirmi in mente sarebbero i bravi genitori

I bravi genitori hanno un gran da fare con i sensi di colpa. Si impegnano nell’evitarli, nel renderli ad altri, nel negarli. Si rivolgono allo psicologo chiedendo di essere ora scagionati, ora puniti, poi perdonati o assolti. Chiedono di espiare e rimediare, parlano da dentro questo vissuto ed ho la sensazione che gran parte della letteratura e dei professionisti che si occupano della genitorialità lo facciano da questo vertice. Questa letteratura si posiziona, a mio modo di vedere, a valle del problema. In altri termini, non ne discute le premesse ed è quanto vorrei tentare di fare. 

Memorie personali

Ricordo di avere letto una frase all’inizio di un libro di un noto pedagogista. “Educare vuol dire organizzarsi bene”. Era agosto. Un’estate caldissima. Mi ero detta che avrei potuto utilizzare le ultime settimane di gravidanza per leggere, pensare, oziare. E invece sudavo, monitoravo ogni segnale del mio corpo, e componevo ossessivamente la valigia da portare in ospedale, come se stessi scongiurando una catastrofe. In altri termini evacuavo ciò che provavo in azioni concrete, esorcizzavo le mie paure, e tutto avveniva in un’atmosfera ovattata. Ero già nel fondo di un pozzo profondissimo, nel bel mezzo di un delirio onnipotente circa la mia capacità o incapacità di prevedere tutto. Devo anche dire che ero in ottima compagnia. A delirare eravamo in molte ed in molti e questo sembrava confortante. Mi sentivo nella norma. Stavo facendo ciò che andava fatto, ciò che era giusto fare. In questo stato emotivo, la frase del noto pedagogista mi rassicurò molto e mi caricò di una strana eccitazione. Se è questioni organizzativa, basta organizzarsi! Di quell’eccitazione onnipotente avrei dovuto diffidare, eppure mi pareva che gran parte della letteratura intorno alla nascita sostenesse l’ipotesi che l’esperienza della genitorialità potesse essere preparata attraverso l’acquisizione di skill e conoscenze.  Potrei fare una lunghissima lista di libri, consulenti, strumenti acquistati e consultati. Abbastanza presto ero una madre informatissima e piena di competenze tecniche. Mi ero trasformata in una brava mamma.

Il delirio di onnipotenza che mi colse non era un fatto individuale. Certamente soggettivo ma non individuale. Ho incontrato diverse donne e uomini sia nel contesto legato alla consulenza psicologica che nei contesti della vita privata. Le loro parole, così come le mie dell’epoca, raccontavano di una cultura della genitorialità fondata sulla pretesa che i genitori possano, attraverso l’azione educativa, rendere il proprio figlio in un certo modo. Questo certo modo narra di ciò che è ritenuto desiderabile dalla cultura di riferimento familiare e può variare nello spazio e nel tempo, ma il paradigma non cambia. Io, in funzione del mio ruolo educativo, ho il dovere e il potere di renderti educato, qualunque cosa voglia dire questa parola nel panorama culturale di riferimento. L’incantesimo che alimenta questa posizione svanisce non appena il nuovo nato inizia a portare la propria irriducibile alterità, quindi subito. Il fallimento di questa pretesa può essere estremamente angosciante e portare i genitori a cercare modi per ripristinare il controllo sulla situazione. La distribuzione delle colpe può essere uno di questi modi. Interessante a tal proposito curiosare sulle prime voci di Google dopo aver digitato “mio figlio/a non…”: mangiare, socializzare con altri bambini, reciprocare l’affetto, queste ed altre sono le questioni rispetto alle quali i genitori sperimentano il fallimento delle proprie pretese.

Quell’insieme di conoscenze e strumenti accumulati nel tempo per “diventare bravo genitore” rivelano tutta la loro preziosa ambivalenza. Assumono la forma di arsenali, luoghi di costruzione e raccolta delle armi prima dell’incontro con il nemico. Da dentro questa mitologia, la nascita di un figlio può assumere caratteri estremamente persecutori, luoghi di valutazione di sé più che di conoscenza dell’altro, dimostrazioni di essere all’altezza di qualcosa o di essere meglio di qualcuno.

La questione della valutazione di sé, oltre che dell’altro, assume tutta la sua centralità. 

In tal senso, la problematicità delle intenzioni del bravo genitore risiede nell’impossibilità del verificare il proprio operato. Trattare i propri figli (quale che sia l’età) come esito dell’azione educativa è estremamente problematico oltre che falso. Una lunga tradizione psicologica ha per molto tempo alimentato una cultura colpevolizzante nei confronti dei genitori e con questo arrière pensée i genitori bussano alla porta dello psicologo.

Mi torna in mente quanto scritto da Freud in Analisi Terminabile Interminabile:

«Sembra quasi che quella dell'analizzare sia la terza di quelle professioni 'impossibili' il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo. Le altre due, note da molto più tempo, sono quella dell'educare e del governare». 

Le tre professioni impossibili: educatori, governanti, psicoanalisti. Un destino comune: l’esito insoddisfacente. Sono tutte professioni la cui finalità, più evidentemente, passa per la relazione con un altro. Non esiste bravura che possa eludere la questione della relazione con la specificità dell’altro, la sua domanda. In tal senso non esiste il bravo genitore. Esiste la relazione tra genitori e figli più o meno capace di imparare, divertirsi, fare cose insieme, senza incespicare in una conflittualità mortifera. L’impossibilità alla quale Freud fa riferimento non sembra corrispondere dunque all’insensatezza. Vale la pena continuare ad implicarsi entro funzioni educative, purché si rinunci alla smania di valutarsi e valutare. In altri termini, tentare di costruire, in quell’abisso di impossibilità, alcune piccole condizioni che diano senso alla relazione educativa stessa. 

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