Trigger, tra colpa e responsabilità

Trigger, tra colpa e responsabilità

Negli ultimi anni, i colloqui con gli e le adolescenti sono tutti un “questo mi triggera”, “mi ha triggerato”. Non voglio fare quella che fa finta di sentirsi vecchia ma faccio quella che sono cioè una che non usava il verbo triggerare. Rapidamente mi sono aggiornata ed oggi che so, continuo a non usarlo. 

“Micol mi visualizza le stories continuamente ma poi non mi risponde se le scrivo in direct (messaggistica di Instagram, per i meno avvezzi), questo mi triggera troppo”, mi spiegava Anna. 

Triggerare viene da to trigger, innescare, attivare. Il suo uso, ci dice l’Accademia della Crusca, è rintracciabile in economia, elettronica, fisica, informatica, medicina, musica, psicologia, rete, social media. Pressoché ovunque. Ma come mai il termine gode di questa innegabile fortuna?

È frequente imbattersi nella formulazione “trigger warning” (abbreviato TW) posto prima di un contenuto social ritenuto potenzialmente capace di riattivare un trauma vissuto. Sono indicazioni specifiche rivolte a quella parte di pubblico che in passato potrebbe aver vissuto esperienze traumatiche simili a quelle raccontate o mostrate.

Dallo spazio web, l’uso dei TW si è spostato nelle Università. Da alcuni anni gli studenti dei college americani chiedono di essere avvertiti da un apposito sistema di segnalazioni nel caso in cui il materiale da studiare nei corsi contenga tematiche misogine, violente, razziste o colonialiste che possano triggerare gli studenti. All’Università di Santa Barbara, in California, si sono aggiunti l’Oberlin College, la Rutgers University, la University of Michigan, la George Washington University e alcuni altri atenei. Il dibattito è chiaramente vivace. 

Ad agosto del 2020 presso il Globe Theatre di Londra ci fu una rappresentazione di “Romeo e Giulietta” che generò molto scalpore. Questa venne anticipata da trigger warning circa il tema del suicidio, dell’uso delle droghe e della presenza di sangue finto in scena. Il personale del teatro ha inoltre fornito al pubblico i numeri telefonici di un’associazione per la prevenzione del suicidio e di un ente di beneficenza che si occupa di salute mentale.

Da una parte chi sostiene che i TW sono una forma di attenzione rispettosa nei confronti delle vittime di situazioni traumatiche che consentirebbe di non esporre ad altra sofferenza chi non lo desidera, dall’altra docenti, psicologi ed in generale persone impegnate nel dibattito culturale che segnalano la problematicità di tale proposta. Nello specifico, la diffusione di questa formula sembra essere messa in discussione dalla sempre più diffusa opinione di inefficacia circa l’intento di evitare la rievocazione di un trauma attraverso la sua anticipazione: banalmente e senza addentrarmi nelle dettagliatissime ricerche di repertorio evidence based alle quali sono poco affezionata, dire “attenzione, si parlerà di suicidio” costituisce di per sé l’evocazione di un’immagine alla quale attingerai con il tuo mondo associativo. La fortuna del TW, dunque, non sembrerebbe legata alla sua effettiva efficacia nell' evitare di rievocare flashback traumatici, appare piuttosto come dichiarazione di appartenenza a gruppi sociali attenti alle marginalità e alle periferie del mondo (interno ed esterno). Ma c’è un altro elemento che, a mio modo di vedere, rende così popolare questo verbo ed è la cultura del trauma. In un articolo del New Yorker la giornalista e critica letteraria Parul Shegal esordisce così: 

Trauma has become synonymous with backstory; the present must give way to the past, where all mysteries can be solved”. Il trauma è diventato sinonimo di retroscena; il presente deve lasciare il posto al passato, dove tutti i misteri possono essere risolti.

Nell’articolo l’autrice propone un gioco simile a quello fatto da Virginia Woolf nel saggio Mr Bennet e Mrs Brown nel quale si interroga circa i criteri impliciti ed espliciti di costruzione di un romanzo e di immaginazione dei personaggi. Woolf tentava di dare senso alla crisi delle convenzioni stilistiche dell’Ottocento, incapaci ormai – siamo nel 1924 – di dare costruire personaggi realistici ed interessanti. Oggi, scrive l’autrice, la signora Brown seduta davanti a Virginia Woolf sul treno e capace, secondo Woolf, di evocare storie e mondi possibili, verrebbe vissuta come persona genericamente traumatizzata nel passato e la cui vita, sintomatologicamente, esprimerebbe turbamento ed inquietudine. Il trauma è diventato un topos letterario di grande rilevanza ed è qualcosa di significativamente evidente anche dentro gli studi di terapia.

La struttura concettuale ed epistemologica del trauma è che certi accadimenti della vita causino, in modo non necessariamente lineare, emozioni, pensieri e comportamenti. “Lui mi ha risposto così perché è orfano”, “io faccio colì perché quando ero ragazza sono stata allontanata da casa” “sono agitata perché ho un esame”. Nelle relazioni di coppia questo può prendere pieghe tragiche e comiche insieme, situazioni nelle quali la relazione può esaurire il proprio senso nell’accudimento reciproco circa i propri traumi e le proprie ferite. Qui torniamo al nostro triggerare che indica proprio questo processo di causalità tra i propri vissuti e gli accadimenti del mondo e che, come nei romanzi, appiattisce la polisemia della vita all’univocità del sintomo.

Trattare il proprio mondo emotivo come risultato di stimoli ambientali ha sicuramente il vantaggio di non considerare la propria implicazione nella costruzione di quella emozione dentro il contesto. Una sorta di indulto generalizzato, improvvisamente tutti senza colpa. È il contesto che se ne assume il carico ma l’individuo, oltre ad essere senza colpa, è anche impoverito della responsabilità circa ciò che prova che è una delle cose che rende le relazioni interessanti. La dialettica tra colpa e responsabilità o, detta in altro modo, tra soggettività come risorsa o come ostacolo, è alla base della differenza tra culture conservatrici e progressiste, destre e sinistre. Una tensione sempre presente sia nelle relazioni sociali che dentro di noi. Di questa tensione ci si occupa in psicoterapia nell’ipotesi che esserci negli accadimenti, riconoscere la propria responsabilità e la propria implicazione è anche l’unica possibilità di esercitare il proprio – limitato e sempre presente - potere trasformativo.

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