Io, io, io. La mitomania come personal branding

Io, io, io. La mitomania come personal branding

In una recente intervista apparsa sull’Huffington Post, il fumettista Gipi ha dichiarato di voler smettere di raccontare sé stesso nelle sue opere. Scavare dentro di sé, raggiungere gli abissi più torbidi del proprio Io e restituirli al lettore in forma esemplare - o quantomeno significativa - è diventata un’operazione superflua, perché è ciò che avviene quotidianamente sui social network. Ciascuno può diffondere la propria visione del mondo agli altri, universalizzandola, a partire dal presupposto che questo sia l’unico modo possibile per raccontare la realtà.

L’idea che la realtà oggettiva sia imprescindibilmente influenzata dalla nostra percezione, sino a sostituirla, se non proprio a costruirla, è arcaica e affonda le sue radici nella fenomenologia di Husserl, passando per i tutti i grandi movimenti filosofici e culturali del Novecento, dal relativismo, al costruttivismo fino al postmoderno. 

Negli ultimi tempi, tuttavia, si sta affermando una narrazione dominante, secondo la quale non c’è via d’uscita dall’obbligo della soggettività. Qualsiasi informazione, notizia, avvenimento è filtrato attraverso la personalità individuale, assottigliandosi a tal punto da perdere la propria consistenza, tanto che oggi è sempre più difficile distinguere l’informazione dall’opinione, il messaggio dall’emittente. 

Questa narrazione si fonda su due presupposti, l’individualismo come modello relazionale prevalente e la mitomania come personal branding.

Siamo abituati a credere che la storia del pensiero umano sia da sempre intrisa di individualismo. I modelli economici del comportamento umano più diffusi affermano che le azioni degli individui siano dettate da motivazioni egoistiche e che lo stesso altruismo sia in realtà un modo socialmente utile di ricercare una gratificazione personale. 

Non è però sempre stato così. In passato sono esistite società che aborrivano l’individuo e che consideravano quello personale un piano irrilevante, se non proprio antisociale.

Basti pensare alla Grecia classica o all’esperienza comunale medievale e a due termini che nell’etimo rivelano l’idea che tutto ciò che conta davvero è collettivo, l’idiozia e l’accidia. 

Nella Grecia arcaica, gli idiotes erano i cittadini privati, considerati incolti rispetto a chi ricopriva cariche pubbliche e soprattutto inutili dal punto di vista sociale, dal momento che il privato non apporta alcun beneficio al bene pubblico. Dello stesso avviso erano i cittadini dei Comuni medievali, che introdussero fra i vizi capitali l’accidia, non intesa come pigrizia, ma come inazione sociale. All’uomo medievale poco importava se non ti andava di pulire i pavimenti o di rassettare casa. Fondamentale invece era che tu non partecipassi alle votazioni pubbliche o alla funzioni religiose e che dunque rinunciassi all’azione politica e sociale per chiuderti nel tuo interesse privato.

Oggi questo tipo di mentalità ci sembra sempre più lontana e incomprensibile. Il modello relazionale prevalente è individualista e siamo abituati a pensare che tutti nei propri rapporti (professionali, sentimentali, amicali) ricerchiamo esclusivamente il benessere individuale. L’interdipendenza sociale, cioè il fatto che tale benessere non può essere raggiunto senza l’accordo con gli altri, è allora vissuta come un compromesso, se non proprio una rinuncia alla propria individualità.

Il secondo fenomeno è la cultura del personal branding, dell’essere imprenditori di sé stessi, dell’occupazione dell’infosfera con la propria presenza, che i social network hanno stanato dai contesti aziendali/manageriali e diffuso come esigenza di massa. Tale cultura, spesso priva di criteri per verificarne l’utilità sociale, sta sempre più scadendo nella mitomania, fino a rendere la mitomania stessa l’unico modo per fare personal branding.

Così si spiega il successo della pagina Io, professione mitomane, una carrellata della vanità degli scrittori e dei giornalisti italiani, intenti a presentare sé stessi in una veste agiografica spesso poco credibile, pur di allargare la propria visibilità ed i propri follower. Il destino stesso della pagina è la rappresentazione esemplare del fenomeno. Il numero di utenti che la seguivano è cresciuto a tal punto che gli amministratori hanno finito per mettere alla gogna pubblica post non propriamente mitomani, pur di avere materiale fresco quotidiano, mentre i commentatori facevano a gara a chi scherniva il giornalista di turno nel modo più originale e cinico. Alla fine la pagina è stata chiusa, in uno dei rari casi in cui si è preferito l’oblio al decadimento della propria funzione. 

L’aspetto più grave è che la cultura della mitomania come personal branding si sta insinuando anche laddove ci si aspetterebbe che l’obiettività e l’onestà intellettuale fossero garantite, nella comunicazione scientifica. L’esempio italiano più eclatante è il burionismo.

L’uso di un tweet per comunicare che si sa qualcosa che non si può rivelare non ha chiaramente alcuna utilità per la collettività. Serve esclusivamente ad accreditarsi come persona informata dei fatti, in un “ve l’avevo detto” che supera i confini della chiacchiera da bar per diffondersi su scala nazionale. 

La mitomania, definibile come la tendenza a mentire e ad accettare come realtà, in modo più o meno volontario e cosciente, i prodotti della propria fantasia, non è necessariamente patologica. Ne parlò indirettamente anche Freud, quando identificò nella sostituzione della realtà esterna con il mondo interno uno dei principi fondamentali del funzionamento inconscio, basato sul meccanismo della proiezione.

Proiettare sugli oggetti esterni e sulla relazione con l’altro il proprio mondo emozionale è un meccanismo di base dell’essere umano. Tale meccanismo, tuttavia, deve essere sempre sottoposto al principio di realtà, altrimenti si rischia di cadere nel delirio psicotico, nel quale non si è più in grado di riconoscere il confine fra ciò che è fuori da sé e ciò che è il prodotto delle proprie fantasie. 

La proliferazione della mitomania e dell’idea che l’esperienza individuale sia l’unico fondamento di qualsiasi conoscenza, può allora diventare problematica nel momento in cui si smette di considerare la relazione con l’altro come il limite entro cui valutare la propria azione e competenza comunicativa. Se l’altro - inteso come persona, come collettività, come ambiente esterno più ampio - viene assoggettato alle proprie fantasie narcisistiche, la comunicazione stessa cessa di esistere. Diventa psicosi, magari collettiva, ma pur sempre psicosi. 

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