Jung lo ha detto abbastanza chiaramente: se un atteggiamento non è presente nella coscienza è possibile che agisca oscuramente nell’inconscio e si manifesti precipitando nella realtà in sbuffi improvvisi e incongrui.
Mi dico, so, di non essere paranoica, nel senso che si attribuisce culturalmente al termine. Mi dico, so, che mi piace stare nel testo e non nel sottotesto, che se una persona mi dice una cosa di norma gli credo e non sono sospettosa.
Questo apparato luminoso rischia però di franare fragorosamente quando scrivo messaggi: sarà chiaro quello che ho detto? Non sarà sembrato aggressivo? Giudicante? Si capiva che era ironico? Moltissime volte ho desiderato chiosare un messaggio con quelle che a teatro sono le note di lettura e recitazione, e che indicano tra parentesi l’intenzione emotiva con cui devono essere dette le frasi: (indignata), (ridendo e allargando le braccia), (stordito).
Vorrei quindi portare una riflessione sul fraintendimento della comunicazione “mediata”, tenendo conto che larga parte degli scambi comunicativi quotidiani avvengono per iscritto, via whatsapp o via mail. Questa predilezione per la scrittura, piuttosto che per la chiamata o per l’incontro di persona, ha una evidente ragione di economicità: con i tempi ristrettissimi di cui sono per lo più fatte le nostre vite, il messaggio scritto consente una risposta differita, su cui si può riflettere quando si può. Anche qui, tuttavia, si può annidare un aspetto d’ombra. Nella mia cerchia di conoscenti (nel contesto lavorativo e privato) mi accorgo che molte persone preferiscono la messaggistica su un piano più emotivo. Scrivere espone di meno che telefonare o incontrare le persone. Proprio per quella maggiore freddezza del testo scritto, che non arriva condito dalla emozione che può tradire la voce o anche il corpo, se si è in presenza, si può arrivare a scegliere la comunicazione scritta come mezzo ideale per proteggersi dall’urgenza, dall’immanenza della relazione con l’altro. Proprio la natura del mezzo scritto, che appiattisce la densità corporea di un individuo in una concatenazione di caratteri bidimensionali neutri, contribuisce al dilagare di derive socialmente allarmanti, come la violenza verbale in rete. Ma anche ad un livello meno drammatico e più quotidiano, l’impoverimento del codice linguistico che avviene nella comunicazione mediata, in cui bisogna essere rapidi, smart e se possibili arguti, ci priva di una parte della responsabilità dell’interazione: quella che viene sinteticamente indicata col “metterci la faccia”. Mettendoci la faccia e anche il corpo l’intenzione comunicativa diventa più trasparente: parlano le posture, parlano i silenzi, parla la vicinanza, parla il tono di voce.
Ho quindi timore di essere fraintesa perché il messaggio è una costruzione un po’ posticcia, di cui mi sfugge una parte dell’atmosfera della interazione con l’altro. Perché spesso è un mezzo furbo per svicolare dall’urgenza della comunicazione, o per stemperarla. O perché nello scrivere un messaggio non possiamo fare a meno di proiettare sull’altro fantasie immaginarie su come prenderà la nostra comunicazione, ed è un dato su cui non abbiamo una verifica diretta. Quando mi succede che una persona mi legga a voce una conversazione personale avvenuta via messaggi, cambiando l’intonazione nell’interpretare i contributi dei personaggi durante la lettura, spesso vengo colta dal dubbio che l’intenzione che sta dando alla comunicazione (evidente nella scelta dei toni) potrebbe non corrispondere a quella della comunicazione originaria e mi domando se quel determinato messaggio non potesse essere interpretato in un modo essenzialmente diverso.
Certo, mi si potrà obiettare, scrivere un messaggio dà il tempo di riflettere e dare una risposta più pensata. Ed è vero, nella versione più virtuosa di questo tipo di comunicazione è così. In fondo, è il motivo per cui prima ci si scriveva lunghe lettere ed ora ci si può attardare a scrivere lunghi messaggi. Mi si potrà poi obiettare che l’intenzione comunicativa può essere chiarita con l’utilizzo degli emoticons. Ma non credo che mettere una faccina triste nell’accompagnare un messaggio di cordoglio o dispiacere migliori la comunicazione. Spesso anzi rischia di svilirla, di infantilizzarla o di mistificarla. Quando parliamo di alfabetizzazione emotiva dobbiamo tenere conto anche di queste minuzie. Nominare le emozioni, distinguerne le qualità, è un processo essenziale per la capacità di essere in relazione.
Quindi che faccio, telefono?