L’ambasciata di Cambogia, di Zadie Smith

L’ambasciata di Cambogia, di Zadie Smith

Diversi anni fa andai a vedere la presentazione di questo libro alla presenza dell’autrice. Zadie Smith, divenuta un caso editoriale a soli 23 anni con l’uscita dello splendido Denti bianchi, mi sembrò subito diversa da come me l’ero immaginata. Appariva soddisfatta e determinata, ma stanca, come se avesse ottenuto un’estenuante vittoria di Pirro interiore.

Presto ne comprendemmo il perché. Zadie per anni è stata raccontata dalla critica come l’erede designata del compianto David Foster Wallace, portandosi sulle spalle un lascito ingombrante dal quale finalmente si sentiva in grado di prendere le distanze.

Ne L’ambasciata di Cambogia l’autrice abbandona lo stile che l’ha resa celebre, quel realismo isterico caratterizzato da un’attenzione quasi maniacale ai dettagli introspettivi dei personaggi, da un ritmo di scrittura forsennato e da una ricerca “a tutti i costi” della vitalità. L’io narrante è per la prima volta freddo e distaccato, filtrato attraverso gli occhi della protagonista, Fatou, una ragazzina di origini ivoriane che lavora da semi-schiava per una famiglia benestante londinese.

Fatou ha una storia d’immigrazione alle spalle che è allo stesso tempo esemplare e peculiare, collettiva e privata. Segue, infatti, tutti i canoni del viaggio verso l’Occidente di un emigrante africano (dal paese d'origine ad un altro stato africano - il Ghana - fino alla Libia e dunque all’Italia - i due snodi obbligati del percorso verso l’Europa che conta, in questo caso l’Inghilterra), ma non sembra portare con sé alcuna radice originaria. Fatou è un’apolide che osserva il mondo senza categorie culturali preordinate e tramandate e per questo è in grado di assorbire da subito l’individualismo occidentale, che le serve da bussola per orientarsi nel mondo e per capire sé stessa. 

In una scena del racconto, Fatou legge la storia di una schiava del Sudan che vive nella casa di un ricco londinese e si domanda se anche lei non fosse una schiava, dopotutto. Ne nasce così un confronto fatto di convergenze e distanze. Nessuno picchiava Fatou come accadeva alla ragazza del Sudan, anche se la sua padrona “l’aveva schiaffeggiata un paio di volte e i due figli più grandi le parlavano senza rispetto e non la ringraziavano mai (a volte li sentiva usare il suo nome come insulto. “Sei nero come Fatou”. Oppure: “sei stupido come Fatou”)”.

Qui è la chiave psicologica del racconto. Fatou non ha una tradizione, né una coscienza collettiva a cui far riferimento per definire la propria identità - che procede più per negazioni che per asserzioni - ma in maniera quasi etnografica mantiene la giusta distanza per osservare ciò che noi ormai abbiamo dimenticato o dato per scontato.

Così attraverso i suoi occhi possiamo vedere noi stessi, la cultura occidentale ed in particolare europea, al microscopio. Ciò che ne emerge non sono tanto il classismo ed il razzismo ancora striscianti, quanto una società atomizzata, pregna di cinismo e indifferenza, nella quale l’individuo - come Fatou - fatica sempre di più a sentirsi parte di una comunità.
Ed è qui che si comprende il ruolo dell’ambasciata di Cambogia, la cui vita interna né Fatou né il lettore possono intravedere e che è percepita solo attraverso le traiettorie del volano che si staglia lungo il muro dell’edificio, nel corso di un’interminabile partita di badminton che scandisce il racconto.

Proprio quel muro, che nasconde alla vista gli inquilini dell’ambasciata, diventa metafora dell’impossibilità a conoscere e incontrare l’altro, di cui possiamo soltanto intuire il movimento e la presenza. 

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