Intervista alla dott.ssa Silvia Baldi
Dottoressa Baldi, cosa sono i DSA?
Con l’acronimo DSA ci si riferisce ai “Disturbi Specifici dell’Apprendimento”, disturbi del neurosviluppo relativi a specifiche aree di apprendimento. In bambini con funzionamento cognitivo adeguato, si osservano difficoltà nell’apprendimento della lettura, della scrittura, sia negli aspetti ortografici che grafomotori, e del calcolo. Queste difficoltà posso presentarsi, in ciascun alunno, tutte insieme, o può essere presente una sola, o più di una.
Generalmente qual è l’età di insorgenza dei DSA e quali sono i segnali che indicano il disturbo?
L’età per la diagnosi, a seconda del disturbo, si pone perlopiù tra la fine della seconda e la fine della terza classe primaria. Quello è il momento in cui si possono individuare con maggior chiarezza le difficoltà persistenti, tipiche del disturbo, rispetto a tempi di apprendimento diversi da bambino a bambino, che però rientrano nel range di variabilità individuale. Nonostante questo è possibile individuare dei segnali di allarme o indicatori di rischio anche più precocemente e questo consente sia di monitorare l’evoluzione del profilo di competenze sia di decidere di intervenire per favorire i processo di apprendimento.
Si sente spesso parlare di una sovrastima della diagnosi. Ma quanto è realmente diffuso questo disturbo in Italia?
Innanzitutto dobbiamo dire che non esiste un osservatorio epidemiologico nazionale rispetto all’incidenza del disturbo. Dai dati che sono raccolti nelle diverse regioni, possiamo stimare che sia dal 3 al 5 % della popolazione in età evolutiva.
Si sente parlare anche dei ritardi della certificazione dei DSA. Può chiarirci intanto la differenza tra diagnosi e certificazione?
La diagnosi è l’accertamento clinico del disturbo. La certificazione è quell’attestazione (che a livello pubblico, nel Lazio, si acquisisce presso il Servizio Sanitario Nazionale), che consente al bambino con DSA di avvalersi di una serie di misure previste e disposte da legge, come attivare il Piano Didattico Personalizzato (PDP). Ciò che è in ritardo non è la diagnosi, ma la certificazione. Nelle more della certificazione e in ottemperanza alle disposizioni legislative in materia, la scuola è autorizzata ad attuare le misure compensative e dispensative per gli alunni con DSA e quindi attivare il PDP anche in presenza della sola diagnosi, ma di fatto questo nel Lazio spesso non succede.
Gli psicologi sono professionisti autorizzati alla diagnosi del disturbo (e ovviamente al suo trattamento), mentre la certificazione può essere rilasciata solo dal Servizio Sanitario Nazionale.
Sul piano psicologico che cosa comporta il ritardo della presa in carico “ufficiale” del bambino con DSA? Mi sembra infatti che possa delinearsi una specie di limbo tra i primi segnali di allarme che può rilevare un genitore e il momento in cui il bambino ottenga concretamente ciò di cui ha bisogno sia rispetto all’intervento che sul piano formativo.
Sul piano emotivo un bambino che a causa del suo disturbo non riesce a stare al passo con gli altri può sperimentare notevole frustrazione e scarso senso di autoefficacia. Un alunno che sperimenta ogni giorno la sua difficoltà, può sviluppare scarsa autostima e scarsa motivazione allo studio, che può avere come conseguenza anche l’abbandono scolastico. La diagnosi precoce è importante, perché è possibile intervenire sia attraverso un potenziamento specifico, sia attraverso la scuola, con l’attivazione delle misure compensative e dispensative. Un lavoro di potenziamento proprio nel momento in cui la difficoltà si presenta può dare ottimi risultati, che permettono che si crei quel circolo virtuoso in cui il bambino sperimenta efficacia, che innalza la sua autostima e motivazione.
Mettendoci dalla parte dei genitori, quali sono le dimensioni psicologiche e affettive che possono attivarsi quando ci si rende conto di avere un figlio con un disturbo specifico dell’apprendimento?
Per quei genitori che si rendono conto della difficoltà, ci sono due punti critici. Uno, emotivo e psicologico, si accompagna alla domanda: come aiutare mio figlio? Come aiutarlo nei compiti, come aiutarlo perché non subisca quel senso di frustrazione di cui si parlava prima…. E poi c’è un punto più pratico, più operativo, che impatta anche sul piano psicologico: cosa fare quando si rende evidente una difficoltà: qual è l’iter? A chi mi devo rivolgere? Quanto dovrò attendere per poter capire perché mio figlio è in difficoltà? Il genitore può vivere un senso di smarrimento, di impotenza e anche di rabbia. In tutto il processo di individuazione del problema fino alla diagnosi e presa in carico, è importante che i professionisti conoscano bene le caratteristiche del disturbo per poter guidare, chiarire e informare correttamente i genitori.
Quindi lo psicologo può seguire l’intero processo, sia rispetto al disturbo del bambino che rispetto al percorso che coinvolge i caregiver…
Sì. Lo psicologo può intervenire in tutte le fasi. Nel riconoscimento del problema (la diagnosi), nell’intervento sul problema (potenziamento dei processi di apprendimento), nella gestione concreta degli effetti che il disturbo determina nella vita quotidiana delle famiglie. E’ importante però che lo psicologo abbia una formazione specifica sui disturbi dell’apprendimento e che possa lavorare in rete con altri professionisti.