Il padrone nella testa

Il padrone nella testa

Nel film Harry Potter e l’Ordine della Fenice fa la sua prima comparsa un personaggio che è in grado di provocare più fastidio e odio dello stesso Voldemort. Mentre il villain per eccellenza ci trasmette quell’inquietudine e quel terrore di fronte al quale saremmo tentati di scappare, Dolores Jane Umbridge ci provoca un’irritazione cutanea che ci spinge all’attacco: vorremmo soltanto prenderla a pugni.

La Umbridge nel film incarna tutto ciò che non tolleriamo del potere paternalista. Un controllo capillare dei nostri movimenti, la cultura del sospetto, l’omologazione, la retorica della sicurezza del popolo-figlio che, come dice la stessa Hermione, più che non rischiare deve essere abituato a “non pensare”.

Quando Harry entra nello studio della Umbridge proviamo un senso di soffocamento. Tutto, dalla carta da parati al vestito della professoressa fino al tè versato nella tazza, è rosa confetto. Sulle pareti sono esposte decine di quadri con dei gatti. Sulla scrivania ci sono 3 matite, l’ultima disallineata rispetto alle altre. La Umbridge muove impercettibilmente le dita per metterla a posto, come si fa con un quadro inclinato. Quel recupero di simmetria ci fa sentire in trappola e - non importa quante volte abbiamo già visto il film, se per la prima o la tredicesima volta - comprendiamo immediatamente che Harry si trova in pericolo. 

Siamo di fronte ad una delle rappresentazioni cinematografiche più riuscite del disturbo ossessivo-compulsivo, seconda forse soltanto alla straordinaria interpretazione di Jack Nicholson in Qualcosa è cambiato (1997), con il protagonista incapace di camminare per strada perché non può calpestare i solchi fra una mattonella e l’altra.

Delle ossessioni cominciò già a parlare Sigmund Freud a fine ‘800, quando scrisse in La neuropsicosi da difesa (1896) che “le rappresentazioni ossessive sono sempre autoaccuse mascherate”. Le ossessioni sono pensieri intrusivi, immagini che si ripropongono ripetutamente nel soggetto e che hanno a che fare con fantasie distruttive, aggressive oppure con l’angoscia di morte e della malattia. La sensazione complessiva è quella di una catastrofe imminente che incombe sulla persona e che provoca un’ansia intollerabile, che deve essere tenuta sotto controllo. Talvolta serpeggia una paura latente di essere puniti per qualcosa che si è fatto involontariamente, oppure per il solo fatto di essere stato pensato.

È questa sensazione angosciosa che richiede l’intervento della seconda fase del disturbo, la compulsione. Sempre Freud ci dice come essa nasca: “la rappresentazione originaria è stata sì rimpiazzata, ma non da un'altra; essa risulta sostituita da azioni o impulsi che, in origine, hanno servito come elementi di sollievo o come procedimenti protettivi”.
La compulsione è un comportamento rituale, la cui ripetizione permette di allontanare la sensazione di angoscia indotta dal pensiero ossessivo.

Facciamo un primo esempio. Michele è un uomo di 35 anni che da quando ha memoria si confronta regolarmente con le sue ossessioni. Nella sua storia infantile ricorda soprattutto un episodio. Sua madre le aveva regalato una gatta che presto divenne una compagna di giochi inseparabile. Michele amava coccolarla, lanciarle palline di stoffa, condividere il tempo dopo la scuola con lei. Gradualmente divenne una presenza fidata, un porto sicuro che associava alla protezione della casa. Una relazione, tuttavia, segreta, non condivisa socialmente. Se Michele provava disagio nei rapporti con i suoi compagni di classe, nella sua gatta ritrovava quel rifugio “che non aveva bisogno di parole” e senza bisogno di confronto sociale. Con il passare degli anni, però, la gatta divenne il simbolo della sua ambivalenza e dei conflitti che viveva fra il mondo interno della casa e il mondo esterno dominato dal caos, cioè da relazioni imprevedibili, a volte umilianti, a volte gioiose, con i suoi pari. Michele proiettò sulla gatta la rabbia per la perdita della spensieratezza infantile e occuparsi di lei cominciò a diventare sempre più snervante. Quel senso di sicurezza che fino a qualche anno prima la gatta colmava totalmente, adesso era mutato in un sottile senso di frustrazione e ribellione. La amava, ma allo stesso tempo la odiava, perché più che un rifugio ora era diventata la rappresentazione delle sue insicurezze sociali.

Un giorno Michele lasciò aperta la finestra della sua camera e si accorse che la sua gatta si era appollaiata sul sottile filo su cui sua madre stendeva i panni. Con la certezza di un equilibrista navigato, l’animale si godeva il sole e la brezza socchiudendo gli occhi. Michele ebbe appena il tempo di osservare le ante della finestra richiudersi improvvisamente per una folata di vento, la gatta ridestarsi con uno scatto maldestro e volare giù per 6 piani fino a schiantarsi al suolo.

Da quel giorno, Michele cominciò ad avere pensieri intrusivi di morte e distruzione, a provare senso di colpa, perché le sue azioni avevano determinato la morte della gatta. Temeva per la salute di tutti: di sua madre, di suo padre, di suo fratello maggiore. Iniziò a mettere in atto rituali di controllo per tenere a bada la sua angoscia di morte. 

Ora che è un uomo adulto, Michele è diventato padre. Il rapporto con il neonato è però un vero incubo. Michele lavora da casa e passa tanto tempo con suo figlio. E’ costantemente angosciato che possa accadergli qualcosa: che possa soffocare nel sonno, che possa prenderlo in braccio nel modo sbagliato e fargli del male, che possa cadere dalle sue mani, come la gatta cadde dal sesto piano. Per esorcizzare i suoi pensieri, Michele controlla compulsivamente il neonato. Si accerta cinque, dieci, venti volte all’ora che il bambino respiri. Fa di tutto per non prenderlo in braccio e quando lo fa deve avvicinare la guancia alla bocca del bambino per assicurarsi che emetta fiato. 

Nella storia di Michele, le ossessioni e le compulsioni non sembrano gesti privi di significato, quanto tentativi di affrontare i suoi vissuti conflittuali di affetto e repulsione, nei quali la vita e la morte, l’amore e l’aggressività si mescolano in un mix intollerabile. Prendersi cura dell’altro diventa un vissuto persecutorio quando l’altro dipende da te per la sopravvivenza e tu puoi diventare - volontariamente o meno - il suo carnefice. Nel vissuto di Michele, provare aggressività (come fu per la gatta) si lega inconsciamente alla condanna della morte dalla quale non si torna indietro. Le compulsioni sono quindi atti volti a restituire sollievo rispetto all’angoscia e alla colpa, anche quando non hanno una reale funzione di sopravvivenza per sé e per l’altro.

Per fare un esempio maggiormente mainstream, prendiamo il rituale di lavarsi le mani di un germofobico che teme costantemente di essere stato contagiato. Se restiamo sul piano razionale, sappiamo che il gesto in sé, ripetuto all’infinito, non rappresenta una vera profilassi. E’ allora evidente che l’atto ha valore simbolico-rituale e che serve a scongiurare l’angoscia provata, più che un pericolo reale.

Il pensiero ossessivo inquina così tanto la mente che nei casi più gravi si impossessa del soggetto al punto da dominarlo. Usando una metafora religiosa ed un po’ pulp, l’ossessione è il padrone nella testa, mentre la compulsione è il tributo di sangue, è il sacrificio del vitello che serve a placare l’ira divina.

Questa componente fatalista era ben chiara ai primi psichiatri che utilizzavano il termine anancasmo per riferirsi all’ossessione. La parola deriva dalla figura dell’Ananke greca, la Necessità che guidava il destino degli uomini, ma che allo stesso tempo rappresentava la giusta punizione dovuta ad un ente superiore.

Per comprendere l’ossessivo-compulsivo è fondamentale conservare questa duplice accezione. Necessario è il pensiero, come necessaria è la punizione per averlo pensato. Il circolo vizioso in cui è coinvolto l’ossessivo è la ripetizione infinita della sequenza colpa-punizione-redenzione che si reitera nell’atto compulsivo.
L’aspetto non immediatamente intuitivo è che la punizione è desiderata perché ristabilisce un ordine. Placa l’angoscia che altro non è che perdita di confini, l’Ananke che precipita ed è infine risucchiata dal Caos.

Per questo l’immagine di Dolores Umbridge è così riuscita. La ricerca della simmetria, la disciplina e la mania di controllo placano l’orrore dello sconfinamento. Di fronte a tale orrore abbiamo allora due opzioni: attenerci alle regole, interiorizzandole fino all’autopunizione per averle evase, oppure farle saltare in aria con un certo sollievo, come i fuochi d’artificio di Fred e George nelle aule di Hogwarts.

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